mercoledì, Maggio 1, 2024

USA in Afghanistan nel 2021: back to the future?

Il presidente Joe Biden aveva annunciato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Una decisione che avrebbe soddisfatto quasi la metà degli elettori americani. I quali ritengono che la guerra in Afghanistan, la più lunga per gli Usa, sia uno spreco di tempo e di risorse. Soprattutto umane. Di diverso avviso è il generale Kenneth McKenzie, comandante delle forze USA in Medio Oriente (CentCom), secondo cui il ritiro delle truppe sarebbe un errore. Quindi, cosa sceglierà il Presidente Biden? Richiamerà i soldati? Oppure infrangerà le promesse, continuando a occupare l’Afghanistan?

Da quando gli Usa sono in Afghanistan?

La presenza Usa in Afghanistan dura da circa 20 anni. Era il 7 ottobre 2001 quando alcuni raid aerei delle forze statunitensi e britanniche diedero inizio alla guerra. Il tutto in violazione del diritto internazionale e in assenza di un Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il 20 settembre di quell’anno, l’allora presidente George W. Bush aveva annunciato al Congresso che la sua amministrazione avrebbe chiesto al regime talebano di consegnare Osama Bin Laden. In Afghanistan. Il terrorista ritenuto il mandante degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle che solo una settimana prima avevano scosso l’America. Lo stesso che sarebbe stato messo fuori dai giochi in Pakistan, il 2 maggio 2011. Allora perché, nel 2021, le truppe statunitensi controllano ancora il territorio afgano? Nonostante il presidente repubblicano Donald Trump avesse promesso il disimpegno militare in Siria, Iraq e Afghanistan?

Usa in Afghanistan: una presenza ventennale

Facendo un passo indietro, l’occupazione militare statunitense in Afghanistan fu decisa dalla stessa amministrazione Bush. La quale aveva chiarito che non sarebbe mai scesa a patti con i terroristi. Una dichiarazione che piacque (e influenzò) gli alleati britannici oltreoceano, che da quel momento ne replicarono le mosse. Tanto che nel 2011 il London Financial Times riferiva che l’obiettivo della guerra sarebbe stato “stabilire uno stato cliente con una parvenza di democrazia“. Nel corso degli anni, però, quella narrazione è cambiata. E in più di un’occasione. In particolare dopo il 2014, cioè quando i funzionari statunitensi iniziarono a giustificare la presenza delle truppe e delle basi militari per contrastare i gruppi di estremisti attivi nella regione. Primo fra tutti al-Qaeda. Eppure, tale motivazione non persuase i commentatori più informati, anzi.

I motivi della presenza Usa in Afghanistan

Lo stesso Washington Post scriveva in un suo editoriale che una presenza statunitense a lungo termine non solo non avrebbe risolto il problema degli estremisti. Ma soprattutto sarebbe stata controproducente. D’altronde, se l’obiettivo fosse stato sradicare la minaccia terroristica, gli Usa e i loro alleati avrebbero dovuto agire all’opposto di quanto fatto. E per loro stessa ammissione. Questo sulla scorta di un report del 2004, firmato dalla task force del consiglio di amministrazione diretto da Donald Rumsfeld. In particolare, il documento individuava come principali ostacoli allo sradicamento dei gruppi terroristici l’appoggio “unilaterale” di Washington a Israele; il sostegno statunitense ai regimi repressivi in Medio Oriente; e le occupazioni in Iraq e Afghanistan.

Un commento

In proposito, il ricercatore senior presso la New America Foundation, Anatol Leiven, osservava nel 2012: “Con mio grande stupore, trovo che alcuni funzionari statunitensi stiano ora sostenendo che una delle ragioni per cui gli Usa devono mantenere le basi in Afghanistan, persino al prezzo di un accordo irrealizzabile con i Talebani, sia per continuare a colpire al-Qaeda e altri estremisti nelle zone di confine con il Pakistan“. E ancora. “A oltre dieci anni dall’11 settembre, è spaventoso che persone all’apparenza ben informate stiano trattando la minaccia terroristica in modo così rozzo e meccanicistico“. Che fosse voluto?


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Le vere ragioni

Certo è che siano altri gli interessi in campo. Si sa, agli Usa piace infiocchettare le proprie operazioni belliche con i più meritevoli principi e le migliori intenzioni. Ma solo delle motivazioni valide avrebbero potuto spingere la superpotenza a schierare oltre 100.000 truppe all’apice del conflitto; sacrificare la vita di almeno 2.300 soldati; spendere diversi milioni di dollari in operazioni militari; sperperarne altri 100 miliardi per la “costruzione della nazione”, finanziando e addestrando un esercito di 350.000 alleati afgani. Ad esempio, già prima dell’invasione, un rapporto del governo statunitense rilevava che “Il significato dell’Afghanistan dal punto di vista energetico deriva dal suo posizione geografica come potenziale transito rotta per le esportazioni di petrolio e gas naturale da Asia centrale al Mar Arabico“.

Usa in Afghanistan: la guerra giusta?

Da una parte, influenzare tali rotte era un obiettivo di lungo corso per i decisori politici statunitensi. Specialmente se ciò avesse interrotto la fornitura iraniana all’Asia meridionale. Un obiettivo che si sarebbe raggiunto più facilmente grazie alla presenza in loco delle truppe Usa e a un regime malleabile a Kabul. Dall’altra, la guerra in Afghanistan è sempre stata una guerra per la droga. Durante i suoi tre decenni in Afghanistan, perché non bisogna dimenticare gli anni 80, Washington ha condotto con successo le sue operazioni militari solo quando si adattassero al traffico illecito di oppio dell’Asia centrale. Non solo.


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Usa in Afghanistan: la droga

Nel corso degli anni, i proventi del contrabbando dell’oppio e dell’eroina prodotti in Afghanistan hanno finanziato i talebani e i gruppi estremisti. Tra cui il sedicente Stato islamico (Isis) e al-Qaeda. In particolare, hanno permesso loro di recuperare valuta forte per sostenere le proprie operazioni. Il tutto grazie alla connivenza della classe politica. Tra l’altro una delle più corrotte al mondo secondo Transparency International, che nella sua lista posizionava l’Afghanistan al sesto posto su scala mondiale nel 2016. Al quarto nel 2017. Nonostante la coltivazione di oppio sia un crimine molto grave in Afghanistan, punibile con la morte, il paese è uno dei maggiori produttori di oppio su scala globale. E a ragione. Senza considerare che la produzione illegale di stupefacenti rimane l’unica via di sostentamento per una popolazione tra le più povere al mondo.

Qualche dato

Secondo le forze armate statunitensi, il 90% dell’eroina mondiale è prodotta dall’oppio coltivato in Afghanistan. Il paese rifornisce il 95% del mercato europeo e il 90% di quello canadese. Solo l’1% del mercato statunitense, che acquista per lo più dai cartelli colombiani. Tuttavia, l’offerta di sostanze stupefacenti a basso costo avrebbe potuto scardinare gli equilibri di quel mercato. Specialmente in un paese dove l’overdose da oppiacei rappresenta una delle principali cause di morte. Ad esempio, solo nel 2017 il Fentanyal (naloxone) provocò quasi 30.000 vittime. Eppure, la CIA guardò dall’altra parte mentre la produzione di oppio dell’Afghanistan cresceva, passando da circa 100 tonnellate all’anno negli anni 70 a quasi 2.000 tonnellate nel 1991. Senza considerare le ricadute economiche del commercio della droga sulle altre attività legali.


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Afghanistan: una narco-economia?

In mancanza di dati affidabili, però, si può solo stimare l’impatto economico del traffico di oppiacei in Afghanistan. Anche se è indubbio che il volume d’affari che muove la droga afgana non abbia eguali. Né per dimensioni né per capacità di penetrare nella società civile. In un paese in cui più del 50% della popolazione vive al di sotto della soglia nazionale di povertà e la disoccupazione si attesta, a ritmi alterni, tra il 25 e il l 50%, l’economia della droga è un’ancora di salvezza per molti. Per due decenni l’oppio ha rappresentato una delle principali attività economiche, generatrici di gettito afgano. Specialmente negli anni della guerra civile, in cui i proventi degli oppiacei hanno rappresentato le uniche entrate dello Stato. E le cifre lo confermano.

Qualche numero della droga afgana

In proposito, il CIA World Factbook ha valutato che le esportazioni legali di oppiacei dall’Afghanistan siano ammontate nel complesso a 619 milioni di dollari nel 2016. Di cui solo il 21% della spesa era costituito da farmaci. Mentre l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) ha stimato che il valore lordo di questa economia oscilli tra i 4.1 miliardi di dollari e 6.6 miliardi di dollari nel 2017. Dal 6 all’11 per cento del PIL del paese. Nel 2017, l’anno dei record, la coltivazione del papavero aveva garantito quasi 600.000 posti di lavoro a tempo pieno. Più del numero di persone impiegate nelle forze di difesa e sicurezza nazionali afghane (ANDSF). Tanto che l’ispettore generale Usa per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), John Sopko, non esagerava quando definiva l’Afghanistan un “narco stato”. Del resto, l’oppio rappresenta circa un terzo del suo PIL.


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Le ricadute sulla società

Dunque l’oppio influenza in profondità il conflitto in Afghanistan, al momento la guerra più lunga della storia statunitense. Mentre l’eroina guida la corruzione dilagante nel paese e corrode la società civile. In questo contesto, i narcotici possono solo aggravare i problemi di un paese sostenuto da un clientelismo secolare, in cui le autorità centrali finanziano i signori della guerra e gli agenti di potere. Il tutto tollerando la corruzione e dimenticandosi dello stato di diritto. Soprattutto, la sponsorizzazione dell’economia illecita dei talebani da una parte ha rafforzato gli insorti. Mentre dall’altra ne ha garantito il reperimento delle risorse finanziarie. Nello specifico, semplificando gli approvvigionamenti e la logistica. In proposito, Vanda Felbab-Brown ha fatto notare come il contrabbando di droga afgana rafforzi politicamente i gruppi estremistici.

Il commento

Esperta di Politica Estera presso il Center for Security, Strategy, and Technology, Felbab-Brown ha osservato come la protezione dell’economia illegale da parte dei talebani consenta ai ribelli di ottenere i mezzi di sussistenza di base per la popolazione. Difatti, circa il 60% delle finanze dei talebani proviene dal traffico di stupefacenti. Un volume notevole se si considera che i ribelli si limitino a chiedere una “tassa” del 20% sul ricavato del contrabbando di oppiacei. Inoltre, ha proseguito l’analista, l’influenza politica dei talebani sarebbe aumentata proprio mentre il governo afghano e i donatori internazionali avevano iniziato a promuovere l’eradicazione e il divieto della coltivazione del papavero da oppio. Nonostante l’Esercito statunitense avesse elargito un milione e mezzo di dollari al giorno per contrastare il traffico di narcotici da quel 7 ottobre 2001. La data dell’invasione.


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Reticenza o connivenza?

Del resto, che la droga afgana fosse una parte essenziale del conflitto era già chiaro nel 2004. Quell’anno, dopo aver delegato per quasi due anni il controllo dell’oppio ai suoi alleati britannici, Washington dovette affrontare una serie di rapporti scomodi della CIA. I quali erano concordi nel suggerire che l’escalation del traffico di droga stesse alimentando la rinascita dei talebani. Benché nel 2007 Rumsfeld, allora segretario alla Difesa Usa, ancora una volta avesse “Respinto i crescenti segnali che il denaro della droga venisse incanalato verso i talebani“. Il tutto mentre la CIA e l’Esercito “avevano chiuso un occhio ad attività legate alla droga da parte di eminenti signori della guerra”. Ma negli anni successivi le prove del fallimento della strategia degli Alleati nel contenere la produzione di oppio divennero difficili da ignorare.

Operazioni Usa in Afghanistan

Questo risultò palese proprio nel 2017, quando la produzione di oppio in Afghanistan raggiunse i livelli più elevati dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. A novembre di quell’anno, ad appena quattro giorni dall’inizio della missione Usa Iron Tempest, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) aveva rilevato che la coltivazione del papavero fosse aumentata di oltre 120.000 ettari in una sola stagione. Secondo un sondaggio delle Nazioni Unite, nel 2018 la superficie coltivata ad oppio era calata solamente del 20% rispetto al 2017. Questo, non certo grazie agli americani. Piuttosto, a causa della grave siccità che l’anno precedente aveva colpito il Nord del paese.


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Usa in Afghanistan: Iron Tempest

Eppure, la logica di Iron Tempest era semplice. A rigore, attaccare le reti del narcotraffico che operano nel paese avrebbe significato, tra le altre cose, la riduzione delle entrate degli insorti. “Stiamo colpendo i talebani dove fa male, ovvero le loro finanze“. Lo aveva spiegato il generale John Nicholson, comandante delle forze Usa in Afghanistan. Del resto, quella stessa politica stava funzionando bene in Siria. Dove, mutatis mutandis, i bombardamenti aerei contro l’industria petrolifera illegale del gruppo dello Stato Islamico avevano distrutto diverse piattaforme, autocisterne e altri macchinari pesanti. In Siria la missione statunitense aveva ridotto in maniera drastica le entrate del Califfato. Il che aveva reso più difficile per l’organizzazione pagare i suoi combattenti. Quanto all’Afghanistan, il paese avrebbe richiesto un approccio diverso.

Una strategia efficace?

Di questo se n’era accorto anche il tenente generale Jeffrey Harrigian, capo del comando centrale delle forze aeree statunitensi a Doha. In effetti, l’alto ufficiale era preoccupato del fatto che la politica di attaccare le fonti di reddito in Afghanistan “Non stesse funzionando bene come in Siria“. A ben vedere, la svolta non avvenne nemmeno con l’arrivo del generale Austin “Scott” Millar, che il 2 settembre 2018 sostituì il generale Nicholson. Sebbene il nuovo comandante delle forze Nato e statunitensi in Afghanistan avesse adottato una strategia più aggressiva, non fu in grado di spaventare i talebani. E tantomeno riuscì a “portarli al tavolo dei negoziati persuadendoli che la guerra non può essere vinta“.


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D’altronde, i raid aerei condotti durante Iron Tempest hanno avuto un effetto del tutto trascurabile rispetto agli obiettivi che si erano posti. Tanto che le stesse forze armate Usa avevano ammesso che “la produzione di narcotici in Afghanistan è rimasta a livelli elevati“. Con il ritiro delle truppe gli Usa stanno gettando la spugna? Resta difficile crederlo. Oltretutto, tale ritiro dovrebbe avvenire prima di porsi il problema. Il che non accadrà a breve. Almeno, non finché l’amministrazione Biden continuerà a procrastinare. Eppure, il presidente sembrava deciso. “È ora di porre fine alla guerra più lunga d’America. È ora che le truppe americane tornino a casa”, aveva annunciato Biden dalla White House Treaty Room. La stessa in cui l’ex presidente Bush aveva dichiarato guerra ad al-Qaeda e ai talebani, nell’ottobre 2001. Intanto, il generale dei marine Kenneth McKenzie, capo del comando centrale Usa in Medio Oriente, ha espresso la sua obiezione.

L’obiezione dei militari

Sono preoccupato per la capacità delle forze armate afghane di resistere dopo la nostra partenza, la capacità dell’aeronautica afghana di volare, in particolare, dopo aver rimosso il supporto per quegli aerei“, ha detto a un’udienza del comitato delle forze armate del Senato. E ha aggiunto: “Il presidente ha fatto di tutto per assicurarsi che tutte le opinioni fossero sul tavolo“. Quanto ai costi, McKenzie ha riferito che gli Usa avranno “buon ritorno sul nostro investimento“. Del resto, anche Felbab-Brown aveva osservato: “L’Afghanistan si prosciuga quando le forze internazionali si ritirano“. E ancora. “L’evaporazione dei finanziamenti internazionali e afgani per le milizie anti talebane, come la polizia locale afgana, attualmente in corso, aumenterà ulteriormente l’importanza delle opportunità di lavoro dell’economia della droga (così come la tendenza delle milizie alla predazione sulle comunità)“.


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Usa ancora in Afghanistan

Tuttavia, la popolazione statunitense sembra insofferente nei confronti di una guerra senza fine. In proposito, un sondaggio di Gallup ha rilevato che più del 40% delle persone crede da tempo che quello sforzo militare sia un errore. Dall’11 settembre 2011 a oggi, le guerre in Afghanistan, Iraq e Siria sono costate ai contribuenti statunitensi più di un milione e mezzo di dollari. Le cifre sono di un rapporto del Dipartimento della Difesa. Oltre a un costo umano di oltre 2.000 membri del servizio degli Usa, caduti in Afghanistan. Allora, per quale motivo le truppe statunitensi stanno ampliando due delle loro basi militari che saranno occupate da mercenari? Almeno 20 mila, secondo le stime. E come mai i soldati ritirati dall’Afghanistan verranno trasferiti in Siria?

Perché gli Usa non manterranno le promesse?

Un arrivo imminente che trova conferma nei lavori di ampliamento di una pista di atterraggio da parte dei mercenari kurdi del Pentagono. Meglio noti come “Forze Democratiche Siriane”, o FDS. Che sia il modo di Biden per “porre fine” alle guerre infinite? Cioè quelle avviate dai presidenti Bush e Obama? Se così fosse, sarebbe un modo strano per raggiungere l’obiettivo. A dir poco. Dunque, meglio non farsi illusioni. Perché la guerra in Afghanistan proseguirà fintantoché l’Esercito Usa avrà il controllo dell’esportazione illegale delle droghe prodotte nel paese.


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