La libertà individuale non trova il suo limite in quella dell’Altro, ma nel suo bisogno. Per questo motivo non si realizza attraverso imposizioni, ma promuovendo la corresponsabilità: tra cittadini e con le Istituzioni.
La complessità delle cose
La polizia ferma un gruppo di ragazzi che stanno rovesciando dei cassonetti; tra loro c’è un adolescente straniero – proviene da un paese dell’est.
I poliziotti lo conoscono da tempo: non ha mai commesso reati importanti, ma è chiaro che sta camminando su una cattiva strada. I genitori adottivi sono disperati e non riescono a tenerlo a freno.
Nel quartiere lo considerano un problema; più di una volta alcuni residenti si sono rivolti alle forze dell’ordine e al sindaco chiedendo loro di trovare una soluzione – e per “soluzione” intendono “allontanarlo”.
Per loro il ragazzo è solo un problema di ordine pubblico.
I servizi sociali che lo seguono conoscono la sua storia – ed è una storia fatta di abusi, miseria, istituti, violenze.
Sanno che dietro la sua rabbia, il suo compulsivo bisogno di trasgressione c’è una ferita profonda che non riesce a guarire.
Le ragioni degli altri
Le cose possiamo guardare con superficialità, fermandoci a considerare ciò che è diverso come un nemico, un ostacolo da rimuovere, un atto di volontà contrario ai nostri interessi.
Oppure il risultato di storie difficili, di sensibilità o conoscenze diverse dalle nostre, qualcosa con cui doversi confrontare, non solo per motivi etici, ma per dare realmente una risposta al problema.
Il ragazzo di cui sopra per me è una vittima, non un problema. La mia libertà deve trovare un limite nel suo bisogno, anche se questo mi costa qualcosa.
La macchina del consenso
Il Reich spendeva tra un quarto di miliardo e mezzo miliardo di dollari all’anno per finanziare la circolazione di notizie false attraverso giornali, radio e persino il cinema.
Negli stessi anni gli Americani circa 26 milioni. L’obiettivo era quello di assicurarsi il consenso dei cittadini, indispensabile per ogni governo quale sia la sua forma istituzionale.
Quando i fedelissimi di Hitler danno fuoco al Reichstag, i giornali scrivono che sono stati i comunisti, e utilizzano questo pretesto per dichiarare lo stato di emergenza e abolire la maggior parte dei diritti civili forniti dalla costituzione della Repubblica di Weimar.
L’invasione della Polonia viene preceduta dalla notizia di atrocità verso la popolazione tedesca nell’attacco alla stazione radio a Gliwice.
Assicuratosi il sostegno dell’opinione pubblica, il 1 settembre del 1939 le truppe varcarono il confine dando il via all’invasione. Naturalmente la notizia era falsa.
Sino alla primavera del ‘45, la macchina del consenso tedesca – al pari dei quella italiana – continua imperterrita a professare la vittoria dell’Asse, nonostante la guerra fosse palesemente persa.
Hermann Goering, al processo di Norimberga, dichiarò: «Le persone possono sempre essere portate agli ordini dei leader. Tutto quello che devi fare è dire loro che sono stati attaccati, denunciando i pacifisti per la mancanza di patriottismo e perché espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i Paesi».
I meccanismi di propaganda funzionano, in tutte le epoche; difficile individuarli, perché rispondono al bisogno di definire la propria identità sociale, spesso solo individuando un nemico, e di dare una risposta alle paure indotte.
L’influenza spagnola e le ragioni dell’economia
Nel ‘18, per non fiaccare il morale dei soldati impegnati al fronte, e per assicurare la ripesa della produzione agricola e industriale, a più riprese i giornali scrissero che l’epidemia di spagnola era terminata.
Le fabbriche furono così riaperte, ma ben presto il contagio rese necessaria una nuova chiusura, al prezzo di deine di migliaia di vittime.
«I medici e il personale sanitario protestarono per le estreme condizioni lavorative – essendo sotto organico e senza mezzi –, al punto che alcuni abbandonarono il servizio.»
«La “spagnola” ci insegna l’importanza di imporre rigide misure di isolamento a quanti più ambiti possibili della quotidianità, a costo di danneggiare le attività economico-produttive e il funzionamento dell’apparato statale.»
«Nel 1918, migliaia di donne e uomini, risparmiati dall’invio al fronte, pagarono la scelta di dare priorità al funzionamento della macchina statale e bellica.»
https://www.storialavoro.it/al-presente-20/
L’informazione semplificata non è informazione
Credo che chiunque, aldilà delle proprie opinioni, si possa rendere conto ascoltando un notiziario, di come l’informazione stia procedendo a senso unico – alimentando i dubbi e inasprendo la contrapposizione tra le persone.
Con questo, non intendo dire che sta accadendo quello di cui abbiamo parlato in precedenza, ma solo che l’esperienza che ci deriva dalla storia ci dice che, quando accade, è difficile rendersene conto.
Però mi chiedo, aldilà della propria opinione: davvero è plausibile credere che la posizione di milioni di persone – tra cui sanitari che hanno accettato la sospensione dal servizio in ragione della loro scelta – in relazione alla campagna vaccinale sia riassumibile nella stupidità di pochi individui che si rendono colpevoli di ingiustificati e inaccettabili atti di violenza?
È plausibile negare l’esistenza di numerose, anche tragiche contraddizioni di questa campagna vaccinale che, numeri alla mano, non ci sta (purtroppo) permettendo il ritorno ad una vita normale?
Questa narrazione che distingue tra “buoni” e “cattivi” non ricorda a nessuno quella che venne fatta in diretta nel corso nel tragico G8 di Genova del 2001? O, ancora prima, quella di Piazza Fontana, ostinatamente a lungo incentrata sulla “pista anarchica”?
Di cosa nessuno parla mai
Non suscita nessuna riflessione il fatto che nel mettere in risalto le morti di persone che non si sono vaccinate non si parli mai del modo in cui vengono (o non vengono) curate? Che si può morire per mancanza di cure adeguate, non solo per la malattia?
E neppure che della strage delle persone anziane della prima ondata di covid in Lombardia non si parli più? Che non si parli più della scelta – dettata dalla scarsa conoscenza del virus – di concentrare le persone fragili in strutture che hanno incubato la malattia sino a produrre gli esiti letali che sappiamo?
Che non si parli mai della sanità mortificata dai tagli degli ultimi decenni?
Delle difficoltà dei medici di base che rappresentano la spina dorsale di un sistema di cure modulato sulla persona, e quindi garanzia di maggiore efficienza ed efficacia?
Perché, oltre al mantra del vaccino-come-unica-soluzione-al-problema, non viene dato spazio ai medici che sostengono protocolli di cura?
Anche solo per verificare – ad uso e consumo dei cittadini – l’eventuale infondatezza delle loro tesi.
La paura
L’architrave del pensiero unico – quale sia – è sempre lo stesso. La paura.
Da una parte la paura della malattia che induce non solo a ritenere il vaccino la soluzione, ma anche prendere per buono il pretesto della “responsabilità sociale” della sua obbligatorietà e del Green Pass.
(L’ISS dice chiaramente che i vaccinati rischiano sia di contrarre il virus sia di contagiare, e i numeri lo confermano. Presumibilmente non sono i non vaccinati, ma i vaccinati che riempiono stadi e locali al chiuso i maggiori responsabili dei nuovi contagi).
Dall’altra parte, la paura del vaccino in sé e dei suoi possibili effetti collaterali; ma anche del disimpegno della comunità internazionale a lavorare sulla cura degli effetti del virus.
Da entrambe le parti, lo stesso movente: la paura.
E nel mezzo le Istituzioni che piegano la scienza alle esigenze del consenso e degli equilibri internazionali, togliendo ai cittadini la possibilità di fare una scelta realmente consapevole.
Promuovendo una informazione che demonizza chi ha dei dubbi, non riconoscendo gli errori compiuti (sui quali si basa il progresso della scienza), insomma non coinvolgendoli in un percorso che, in democrazia, dovrebbe essere assicurato.
Il nostro ruolo
È un po’ come per il minore (o il migrante) con una storia tragica alle spalle che si rende responsabile di comportamenti sbagliati: o si fa lo sforzo di abbracciare le ragioni altrui, o ci si limita a considerarlo un problema per la società e si cerca di allontanarlo.
I presupposti non sono incoraggianti. C’è chi ha vinto le elezioni cavalcando la discriminazione tra esseri umani.
Invece io credo che osservando la realtà dalla prospettiva che nega all’Altro la dignità dei diritti di cui ognuno dovrebbe essere titolare, non si vada da nessuna parte.
Che non sia sufficiente – oltre che essere sbagliato – liquidare i problemi accusando l’Altro di essere stupido o peggio ancora un nemico.
Che questo prendere posizione contro chi non la pensa come lui – dalla tribuna della politica o sull’ultimo social – sia un gioco al massacro che ci vede tutti quanti annunciati perdenti.
Chiediamo piuttosto maggiore chiarezza a chi abbiamo eletto a rappresentare i nostri interessi.
Una informazione che non connoti chi ha ragione e chi ha torto, ma faccia chiarezza delle ragioni di tutti, e anche si assuma le responsabilità delle proprie scelte.
La politica (e i suoi testimonial) che accusa chi non si allinea – e sono milioni – di essere stupido ricorda quei docenti che, di fronte ad una classe di studenti bocciati, non riflette sulle proprie responsabilità ma le scarica su di loro.
Un cattivo docente – eppure presumibilmente idolatrato dal dirigente per il suo contributo al discutibile prestigio di un istituto altamente selettivo e naturalmente dai promossi.
Ma senz’altro un cattivo docente e un pessimo educatore.