sabato, Luglio 27, 2024

Umiliati e offesi: una lettera d’amore e rinuncia

Anna,
ti saluto così, rinunciando alla parola che il mondo convenzionalmente usa per aprire il cuore di chi apre una lettera, per non irritare la tua bambinesca suscettibilità di fronte a quella che non è che una parola come un’altra per dire “amore” e come molto altro mi è stata proibita, appesantendo la mia leggerezza nel tacerla, sacrificandola al tuo bene ed alla nostra parvenza di storia.

Sei stata il rito di un battesimo, rinunciando per me, muto dei giusti suoni e delle giuste parole, appena nato, al mondo e per me credendo a quello che non potevo nei primi momenti credere esistesse davvero; sono per te ora una cerimonia di cresima, una conferma dei tuoi silenzi, un rinnegare le seduzioni delle opere sognate e le illusioni che queste avevano piantato e che già brillavano rosse come le semplici gioie di fragola della tua dacia.

Ti tributo una rinuncia, non un addio, mi concedo al tuo rifiutarmi, non al tuo proibirmi. Non si può dire addio a chi o a cosa non è stato; potrei dirlo a quello che poteva essere, posso farlo, per quanto inutile e triste, come fosse un sogno delle calde notti d’estate bruciato nell’economia dei giorni di sole. Lo dico a quello che sembrava essere e non era, alla sincerità del tuo tacere, alle fantasie del tuo apparire e parlare, come farebbe un’apparizione a chi è un miscredente, a chi rinneghi la propria fede, rimanendo fedele all’oggetto del suo non voler credere.

Come Dio punisci l’arroganza di chi immagina di conoscerti ed io, eretico rispetto ad ogni tua decisione, per sottrarmi al rogo della tua Chiesa, abiuro. Confesso le verità che per noi hai scelto, ti sollevo da quelle di cui mi hai accusato, ti inganno con il sollievo che ti da sapere che anch’io ti ho celato i segreti di un cuore lasciato aperto.

Ti concedo le mie stesse colpe: le reti della fantasia e dell’immaginazione, le nostalgie, contrarie, di una terra abbandonata e di una mai conosciuta, il romanticismo delle lontananze, i tappeti di pensieri stesi per coprire le distanze senza sporcarsi i piedi, l’anodino delle parole per le noie delle lunghe giornate estive, l’irresponsabilità che è concessa alle illusioni, l’incanto dello svelarsi senza mai mostrarsi dal vero, l’aver confuso lo sport e l’amore, la fanciullezza innocente delle fiabe, l’ignoranza del mondo, il ribellarsi infantile alle sue regole, l’aver preferito la bellezza delle menzogne all’evanescente luminosità grigia della verità.

La tua legge non ammette ignoranza e la mia conoscenza si è tenuta lontana dal tuo regno, quasi temendo la tua sovranità. Abbiamo così erroneamente anagrammato poche lettere, nel leggere “altitudine” e “latitudine”, confrontando le nostre differenti altezze, considerandomi tu forse troppo in basso e pesante e considerandoti io troppo nobile e lieve, mentre si trattava solo di un favore della geografia a concederti qualche ora di sole in più quando io già dormivo.

Ora, però, che i miei pensieri son tornati a casa, dopo che in silenzio li hai allontanati, te ne spedisco qualcuno, come una lettera che non saprei dove indirizzare, di fronte alle finestre dei tuoi occhi che hanno l’acutezza scaltra ed attenta degli orientali e la profondità di chi è centrato nello smarrimento della propria vita e delle cose da fare, un po’ per routine, un po’ per dovere.

Ci sono cose che so, che non riguardano te, lezioni che avevo imparato da tempo e poi dimenticato, pensieri che non si possono insegnare, sorprese, queste si, che ti stupirà scoprire sono un tuo regalo. Ho ricordato, nella triste pace della tua assenza di parole e saluti degli ultimi tempi, alcune mie frasi antiche che mi dicevano che il mondo sarà sempre migliore nei miei pensieri, che nei miei occhi e nelle mie parole. Tu probabilmente leggerai della tristezza anche in questo, come hai immaginato ce ne fosse, probabilmente senza neanche leggerla, nella mia storia del Venezuela, ma è solo perché abbiamo abituato i nostri occhi a parole che abbiamo letto e che non abbiamo mai sentito (quanto rimpiango non averti chiamato più spesso) a rendere ogni meraviglia una noiosa sequenza di lettere. Grazie a te creavo per te incanti che tu potevi solo leggere e non vedere.

Se non hai visto oltre quello che dicevo, non mi stupisce che tu non abbia visto quanto dei miei pensieri non diventava parola. La scrittura ha la propria magia ed il proprio limite nello stesso trucco. Non posso darti l’odore dei risotti che avrei preparato per te, né la gioia del vederti preparare dei dolci, o la pace delle nostre campagne o le scoperte dei nostri viaggi, il rinascere nel tuo corpo e ed il guardarlo nel sonno, l’odio per le leggi dello spazio e del tempo, quando avremmo litigato provando a dire tutto e non riuscendo neanche a dire tanto. Le nostre parole non ci avrebbero mai concesso il miracolo del nostro silenzio (non solo del tuo, che è stato a volte un oltraggio).

Non so se tu riesca a vedere dell’amore in questo. Mi dirai che l’amore si fa facendo l’amore ed essendo d’accordo so, che appunto per questo non credo possa mai essere uno sport soltanto, ma per quanto mi è capitato di provare e per tutto quello che questo tempo il tempo è stato, si possa far l’amore anche facendo tutt’altro. Finché tu sei stata tu era un ridere di me e te e delle piccole noie del giorno. Eri la presenza felice di ogni momento, la gioia in fondo ad ogni delusione che impediva che ogni delusione mi schiacciasse, finché, per l’obsolescenza programmata di tutte le cose, qualcosa non si è rotto, come un cellulare.

Mi hai detto una volta che le mie parole ti accarezzano e sorprendono e che avrei dovuto scrivere un romanzo. Potrei farlo, non escludo di farlo, ne sarei sicuro con te accanto. Questa lettera è quanto di meglio riesco a scrivere guardando il tuo distacco. Sei stata e sei, latinamente, desiderio, un de sidera che è un parlar di stelle che mancano. Chiuderei qui questa lettera di rinuncia, come una Porta Santa appesantita dalla bellezza delle sue incisioni e dei suoi intarsi, se non sapessi quanto sarebbe poi difficile riaprirla e triste separarsi di un minimo spiraglio di cielo che di notte abbozzi il suo immenso e lontano disegno.

Eppure, come farebbe Dio creando, nonostante il suo peso, a te, per riaprirla, basterebbe un soffio tra i miei capelli al risveglio.

Ciao.

Vittorio

P.S. Conserva almeno questo.

Vittorio Musca
Vittorio Musca
Sono Vittorio Musca, ho 39, sono originario di Torchiarolo, in provincia di Brindisi e vivo a Bologna anche se negli ultimi anni per studio o lavoro ho vissuto in Norvegia, Polonia, Repubblica Ceca e Germania. Ho conseguito due lauree. La prima in Scienze Politiche e la seconda in Lettere. Parlo inglese, italiano, spagnolo, tedesco e polacco. Mi piace leggere, prevalentemente classici della letteratura e della filosofia o libri di argomento storico, suono il clarinetto e provo, da autodidatta ad imparare a suonare il piano. Mi piacciono il cinema ed il teatro (seguo due laboratori a Bologna). Ho pubblicato un libro di poesie, "La vergogna dei muscoli, il cuore" e ho nel cassetto un paio di testi teatrali e le bozze di altri progetti letterari. Amo viaggiare e dopo aver esplorato quasi tutta l'Europa vorrei presto partire per l'Africa ed il Sud Est asiatico, non appena sarà concluso l'anno scolastico, essendo al momento impegnato come insegnante. I miei interessi sono vari (dalla letteratura alla politica, dalla società al cinema, dalla scuola all'economia. e spero di riuscire a dedicarmi a ciascuno di essi durante la mia collaborazione con peridicodaily.

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