Crisi è un termine di derivazione greca: “krísis” che significa “scelta, decisione”; non “disgrazia”, per capirci. Ha una accezione intimamente positiva, perché identifica il passaggio verso una situazione di maggior consapevolezza.
I giorni difficili che stiamo vivendo sono ricchi di spunti di riflessione su piani diversi. Quello più immediato riguarda il tema della risposta dei presidi sanitari pubblici alla domanda di cure: vorrei che tutti coloro che parlano dello Stato come una entità maligna facessero tesoro di questa lezione.
Che quelli che si lamentano per il ticket facessero mente locale a ciò che accade – non dico in Africa – ma negli avanzatissimi Stati Uniti d’America, dove sei non hai una onerosa assicurazione sanitaria ti lasciano morire sul ciglio della strada. Che si rendessero conto, quando raccontano delle lunghe attese al pronto soccorso, di quanti cittadini usufruiscono gratuitamente di prestazioni che sono però finanziate dal gettito delle tasse. Vorrei che l’evasione fiscale divenisse, nella percezione comune, quello che è realmente, e cioè un furto alla collettività, e non un atteggiamento da furbi.
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Diamo per scontato qualcosa che non lo è: che qualcuno si prenda cura di noi quando stiamo male, e che lo faccia senza che ci costi niente. Sbagliato. La nostra elevatissima aspettativa di vita è figlia del nostro sistema di protezione sociale, di cui cui tutti traggono beneficio, ma solo pochi contribuiscono a sostenere attraverso il pagamento delle tasse, ma anche l’impegno diretto del volontariato.
In più, ci avviamo a diventare un paese di persone anziane e col passare del tempo la sanità pubblica è sempre meno in grado di venire incontro ai bisogni della popolazione. Sprechi, mala gestione – mettiamoci tutto. Ma al primo posto di questo processo di disgregazione del sistema di welfare mettiamoci la sproporzione tra quanto i cittadini richiedono e quanto restituiscono per il suo funzionamento. Questa potrebbe essere l’occasione per ripensare la nostra società in termini di servizi, ma anche di relazioni tra le persone e di sviluppo a misura d’uomo.
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In questi giorni viviamo come sotto una cappa di piombo: il virus, che a fronte di una mortalità relativamente bassa ma di un alto tasso di contagio, catalizza le paure che altre malattie, ben più gravi, ci affliggono da decenni, ma allo stesso modo non incita a comportamenti consapevoli. Continuiamo a bere fumare in modo smodato, pur sapendo che favorisce la maggior parte delle malattie. Indugiamo nel sovrappeso e nella cattiva alimentazione, e facciamo poco movimento. Percorriamo i binari di una strada che sappiamo dove ci porterà, ma – apparentemente – senza ansia. Oggi invece l’ansia c’è. Ed è riconducibile alla richiesta di modificare le nostre abitudini, che è ciò a cui teniamo veramente, più che alla nostra stessa vita.
L’aspetto – a ragione – sociologico di questa faccenda è la chiave per interpretare quello che sta succedendo. La situazione è grave, ma non inedita. Ed ha anche un finale scritto che non è quello dell’estinzione di massa. L’anno scorso, secondo l’Istituto Superiore di sanità, in Italia circa 5.632.000 persone hanno avuto una sindrome simil-influenzale e si stima che le morti dovute a complicanze siano stati circa 8.000. Numeri importanti – statisticamente – ma non in grado di scatenare il panico di questi giorni. Con questo, non sto paragonando il coronavirus ad una influenza stagionale – solo rimarcando che la diversa percezione della pericolosità è legata a fattori non esclusivamente razionali. Che la cattiva informazione può determinare in noi l’interpretazione di ciò che accade.
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Ma la chiave di tutto – ciò che scatena il panico – è la necessità di responsabilizzarci in prima persona. Rompere il guscio di vetro nel quale sopravvivono le nostre sicurezze, per quanto fatue. Ecco che allora una semplice misura precauzionale, come quella di restare a casa ed entrare in contatto con meno persone possibile per diminuire la possibilità di contagio diventa così difficile da far rispettare.
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Ciò che non riusciamo a fare sotto la spinta della coscienza, ce lo impone la necessità: secondo gli scienziati di NASA ed ESA, la significativa diminuzione biossido di azoto (NO2) nell’atmosfera di questi giorni è dovuta alla chiusura forzata delle attività lavorative nella regione di Wuhan a causa dell’epidemia. Ma ci aspettiamo che tutto torni come prima nell’arco di un mese.
Potremmo uscire meglio da questa difficile prova, se solo imparassimo qualcosa da ciò che ha funzionato e soprattutto da ciò che non ha funzionato. Lo spero, ma non ci credo. Seguendo la traccia immortale della poetica di Aristotele, il fine della tragedia è la ricomposizione dell’ordine. La nostra predisposizione al genere ci condanna a ripetere sempre gli stessi errori.