Nelle società industrializzate la mobilità è uno degli asset strategici: l’organizzazione del lavoro di scala, a partire dalla Rivoluzione Industriale, costringe milioni di persone a spostarsi stravolgendo demografie consolidate nei secoli.
Strade e ferrovie, attraverso le quali si muovono anche le merci, divengono il fulcro dello sviluppo. La logistica si impone come contesto e condizione necessaria per il funzionamento del sistema. E i governi si attrezzano di conseguenza; o provano a farlo.
Le ferrovie italiane
Alla sua costituzione, nel 1861, il Regno d’Italia si trovava in possesso di una rete ferroviaria lunga poco più di 2.000 chilometri, di cui deteneva soltanto il 18%, mentre il resto era ripartito tra ventidue società private, di cui molte a capitale straniero.
Nel resto d’Europa, diversamente, era lo Stato a gestirle, poiché le società concessionarie, il cui interesse era economico ma non sociale, privilegiavano le tratte più affollate, aumentando così l’isolamento delle zone meno avanzate del Paese.
Nel 1875 il governo italiano fece il primo tentativo per riscattare le concessioni ai privati, ma il Parlamento respinse la proposta e provocò la sua caduta, nonostante le forti passività accumulate dalle linee secondarie che, poco tempo dopo, determinarono il fallimento delle società che le gestivano.
Quando, trenta anni dopo, venne istituita l'”Amministrazione autonoma delle Ferrovie dello Stato, le condizioni degli impianti fissi e del materiale rotabile ereditati dalle cessate società erano pessime.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, lo Stato si dovette occupare di ricostruire oltre la metà della rete che, con il fascismo, aveva avuto un forte sviluppo. Poi di nuovo ci fu la riapertura ai privati, sino alla gestione partecipata attuale.
Le autostrade
Lo sviluppo delle autostrade, da subito ha visto invece prevalere il ruolo dei capitali privati. Siamo negli anni ’20; il fascismo inizialmente è favorevole alla costruzione di nuove tratte, ma, per mancanza di fondi, decide di affidare all’imprenditore Piero Puricelli la realizzazione delle infrastrutture, inaugurate dalla Milano-Laghi.
Ma è con il boom economico del dopoguerra che l’Italia decide di puntare decisamente sul trasporto su gomma (anche grazie alla presenza della FIAT), promuovendolo, con una buona dose di ipocrisia, come fattore di sviluppo non solo economico ma anche sociale.
La legge Romita del 1955 prevedeva un onere a carico dello stato per il 40% affidando al mercato il compito di finanziare la parte rimanente: quella “combinazione fra mano pubblica e mano privata” (come la definì lo storico Valerio Castronovo) che negli anni mostrò i suoi limiti nel garantire l’interesse della collettività.
Nel 1999 la Società Autostrade viene privatizzata, e al Gruppo IRI (pubblico) subentra con il 30 % un nucleo di azionisti privati, mentre il restante 70% è quotato in Borsa. Per controllare la società, basta quindi acquisire il controllo di questo 30%.
La famiglia Benetton
E qui entra in scena la famiglia Benetton, che possiede buona liquidità ma soprattutto gode della fiducia delle banche (e della politica, evidentemente). Per aggiudicarsi il 30% di Autostrade investe attraverso la società Schemaventotto 2,5 miliardi di euro, di cui 1,3 propri e 1,2 ottenuti in prestito. Poi, nel 2003, rileva il 54% di Autostrade per 6,5 miliardi, scaricando il debito sulla società.
I Benetton incassano da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi generati da utili, e ne collocano in Borsa il 12% ricavandone ulteriori 1,2 miliardi, e rientrano così interamente dal debito contratto originariamente per acquisire il controllo della società. A quel punto cominciano a guadagnare attraverso i pedaggi che salgono di anno in anno più dell’inflazione.
Il resto è cronaca – cronaca nera, col crollo del Ponte Morandi e quello che ne è conseguito.
Speculazione o occasione di lavoro?
Negli ultimi decenni è aumentata la partecipazione del settore privato nei finanziamenti e nella gestione delle autostrade non solo in Italia, ma in tutta Europa. I motivi sono evidenti: realizzare (e soprattutto mantenere in efficienza) una infrastruttura strategica, ripartendo gli oneri.
Ma, se da un lato appare senz’altro ammissibile che i privati abbiano la loro parte di guadagno, dall’altra lo Stato non può non pretendere (e garantire ai cittadini) standard qualitativi adeguati e fissare costi contenuti per gli utenti.
E forse potrebbe favorire il buon esito di questa collaborazione ponendo ostacoli affinché la gestione delle tratte (o di ogni altra opera diinteresse pubblico) non diventi prestesto per una speculazione finanziaria, ma occasione di lavoro per chi opera in questo campo con professionalità ed onestà.
Sarà un caso, eppure la storia recente ci racconta che le architetture finanziarie che hanno portato ottime aziende specializzate in determinati ambiti a diversificare le loro attività (pensiamo alla Parmalat della famiglia Tanzi) hanno prodotto nel medio termine danni enormi sia ai privati coinvolti che alla collettività.
Forse converrebbe attenerci con maggiore costanza alla famosa massima di Bernardino Ramazzini da Carpi (a cui è intitolato un prestigioso istituto di ricerca): prevenire è meglio che curare. Semplicemente.