giovedì, Dicembre 12, 2024

Un estuario fecondo d’isole: intervista a Simone Migliazza

Nel 2020 nasce la pubblicazione di Un estuario fecondo d’isole, un libro e raccolta poetica di Simone Migliazza. Durante la stesura dell’opera lirica, alcuni testi risalgono al periodo tra il 2012 ed il 2016. Inoltre, gli scritti dell’autore trovano la collocazione nelle distanze, che attraverso lo spazio raggiungono con cautela il pensiero del lettore. Mentre, la ricerca dei dettagli emerge nell’intenzione dello scrittore, di raccontare con la poesia se stesso e la realtà.

Un estuario fecondo d’isole: Simone Migliazza chi è?

Simone Migliazza nasce a Catanzaro e vive i primi diciotto anni in provincia, nel paese di Girifalco. Inoltre, Simone studia a Latina, dove ottiene il diploma e frequenta l’Università de    La Sapienza di Roma, con cui consegue la laurea in storia dell’arte. Dopo il dottorato nella capitale italiana, Migliazza decide di proseguire gli studi di pianoforte, che lo accompagnano fin da bambino. A fronte di ciò, consegue la formazione accademica di conservatorio a Latina, dove il musicista ottiene una laurea, anche in pianoforte. Tutt’oggi Migliazza insegna nelle scuole pubbliche e private. Dall’adolescenza, la scrittura diventa una passione per l’autore, che esegue con costanza. Altri interessi di Migliazza sono la musica classica, la fotografia, la letteratura. Tuttavia, nel tempo libero l’autore ama anche cucinare e viaggiare.

Un estuario fecondo d’isole: il pensiero artistico dell’autore

L’autore nella stesura della raccolta poetica Un estuario fecondo d’isole entra nella visione lirica, attraverso l’osservazione di un quadro, con lo sguardo di un artista in più prospettive. Dal 2012 al 2016, Migliazza esegue un processo d’intervento sistematico sui testi, che spoglia e revisiona. Inoltre, la ricerca dell’autore con Un estuario fecondo d’isole corre su di una selezione degli scritti, in cui non muta la struttura lessicale, piuttosto nasce l’idea di essenza. Durante la rivisita delle opere, lo scrittore calabrese avverte l’esigenza di eliminare uno schema rigido di regole ed impostazioni prestabilite. Mentre, dalla visione lontana dei testi, Migliazza antepone il tempo, consigliere ed artefice nella distribuzione delle stesse, come costellazioni.

Un estuario fecondo d’isole: recensione del libro

La raccolta poetica Un estuario fecondo d’isole trova un filo conduttore per ogni lirica, nella coesione di aree semantiche, tematiche e riflessive. Anche l’espressività trova spazio nella descrizione minuziosa dei dettagli, che l’autore racconta ed espone in rilievo nelle poesie. Di fatto, il libro comprende tre suddivisioni, ovvero: Studi, Amori, Stagioni ed acquerelli. All’interno della prima area, lo scrittore esegue delle indagini, cioè delle ricerche individuali sulla propria persona. Ecco l’immagine introspettiva dell’autore, in un’analisi esplorativa di meditazione. Allo stesso tempo risalta lo scenario umano, nel tentativo di riunire più parti di un uomo, nella restituzione di ogni frammento.

Inoltre, nascono quattro categorie: Physiologia, Mineralia, Bestiarium, Altri alfabeti. A ragion per cui, l’uomo diventa oggetto di se stesso, dove entra ed esce dalla propria esistenza. Durante la vita dell’individuo, lo stesso pretende di osservarne i movimenti, mentre guarda ciò che accade. Nella seconda parte Amori, l’autore inserisce nelle liriche dei racconti immaginari o reali, con i versi del cuore. Alcune liriche emergono nella seconda sezione, con riferimenti alla madre, che risultano distinte con altre poesie. A fronte di ciò, risalta la ramificazione di quattro nuove categorie: Amore di lontano, Lacci, Ombre, Istantanee. Anche l’osservazione qui, cattura l’aspetto esteriore, ovvero volge lo sguardo riflessivo al di fuori dall’uomo.

Di fatto, la riflessione sulla vita e la partecipazione alla stessa, generano il compromesso tra dialogo e mente. In conclusione, l’ultima parte entra nella dimensione impressionista, con la natura soggetto assoluto delle liriche. Inoltre, le poesie appaiono come immagini sensoriali ed accompagnano la terza sezione della raccolta con serenità. Consegue l’unione tra contemplazione ed azione, dove le sensazioni dell’uomo diventano il movimento della vita.

Un estuario fecondo d’isole: poesia

Commiato

Allora, ricordare estati passate all’ombra di chiostri

azzurri,

frescura e schianti del cuore.

Vita viva che si forma

Pienezza acerba, polpa cruda e vibrante.

Sciogliere i nodi

e dispiegare le trame come da un viluppo di spaghi e

cenere.

Il gesto creerebbe mondi e io sarei,

molleggiare del diaframma, assecondare del respiro:

naturale sentire, commozione dell’essere.

Un estuario fecondo d’isole: Simone Migliazza come si presenta ai lettori?

Ad oggi, Simone Migliazza è un insegnante delle scuole medie che ha lavorato anche nell’ambito della comunicazione per qualche tempo. Ed è anche uno con una discreta – sono ironico, naturalmente – passione per la scrittura e per la musica.

Un estuario fecondo d’isole: cos’è la poesia per lei?

La poesia è ciò che ti permette di entrare in contatto con quella parte della realtà che resterebbe altrimenti non esperita, inaccessibile. Ci tengo a dire che, secondo me, la poesia non è un modo di dire le cose, ma un modo di percepire il mondo, attraverso il quale le cose stesse svelano qualcosa dell’esistenza e di noi stessi che nel quotidiano tenderebbe a restare latente. Questo qualcosa lo chiamerei bellezza, intendendola come pienezza dell’esperienza vitale.

Un estuario fecondo d’isole: pensa che tutti possano scrivere poesie? Perchè?

Non penso che tutti possano scrivere poesie, per una ragione evidente: non tutti, nel mondo, devono saper fare tutto. Ad esempio, io non potrei mai fare il giocatore di pallone, ma non per questo me la prendo. Semplicemente, non è la mia vocazione. Ad ogni modo, ciò che importa nel caso della poesia, è che tutti possano entrarvi in contatto, possano fruirla. La poesia, il “poetico”, non è qualcosa che si rivolge a pochi, ma è una dimensione della realtà profondamente umana e che, per questa ragione, riguarda tutti indistintamente.

Mi spiego meglio: io non sono un compositore, eppure sono in grado di comprendere la musica. E anzi, la mia comprensione della musica si affinerà sempre più, via via che familiarizzerò con le strutture del linguaggio attraverso il quale essa si esprime. Perché la musica, come ogni forma d’arte, non parla d’altro che dell’uomo e della sua relazione con la realtà, con la vita. Poco importa che non sia io a comporla. Ciò che è rilevante è che io possa “usarla” per comprendere e comprendermi. Per sentire. Lo stesso vale per la poesia e per le altre arti.

Come entra Simone Migliazza, nel mondo della poesia?

Il primissimo approccio con la poesia, come per molti, è avvenuto dietro i banchi di scuola, alle elementari. Ma, devo dire, di quella esperienza non porto un ricordo particolare. Più tardi, durante l’adolescenza, con alcuni miei amici avevamo iniziato a vederci in un appartamento disabitato e mezzo vuoto dello zio di una di noi e lì passavamo ore ad ascoltare musica, leggere passi dei nostri libri preferiti – King in particolare – e vedere film. In quel contesto, una mia amica mi fece leggere la ballata di Goethe “Il re degli elfi”. Fu amore a prima lettura. Da lì, e da un desiderio che avevo di dire, di esprimere qualcosa, iniziai a scrivere, dapprima con desiderio d’emulare, poi con sempre maggiore indipendenza.

Come vive lei i sogni e la realtà?

Io non sogno molto. O forse dovrei dire che dei sogni che faccio il più delle volte non ricordo nulla. Mi capita di sognare da sveglio, questo sì: d’immaginarmi cose, eventi, scenari imprevisti. In generale, però, mi faccio bastare la realtà: è già abbastanza ricca, se esplorata in tutte le sue possibilità.

Si sente più uno scrittore di poesie o un poeta che scrive nel viaggio della poesia?

Principalmente, mi sento uno che deve assolvere un bisogno, come fosse una necessità fisiologica: certe sensazioni, che credo siano la parte migliore di questa vita sulla Terra, premono per essere comunicate. E comunicarle per prima cosa a me, a darmi conto di me stesso e di me nel mondo. Forse la definizione migliore, allora, è che sono uno che prende appunti, pure se può far ridere. È chiaro che, avendo scelto di pubblicare un libro, credo ugualmente che quanto io sento possa diventare una sorta di “patrimonio condiviso” e che le parole che io ho usato possano mettere in contatto chi legge con una dimensione particolare della propria vita.

Quando e come avviene la sua vocazione poetica?

Come dicevo prima, la spinta a scrivere l’ho sentita per la prima volta da adolescente ed è partita dall’aver sperimentato alcune sensazioni da lettore: come se le poesie dei vari Goethe, Rimbaud, Verlaine, placassero questa “fame” che sentivo d’avere. E da lì, il desiderio di “cucinare” da me – restando nella metafora – qualcosa che mi potesse soddisfare.

Qua’è stata la sua prima poesia?

Era una poesia di carattere narrativo in cui si parlava di una statua di donna e di come, sotto le spoglie di forme bellissime – credo la immaginassi come una Venere classica – l’artista avesse in realtà nascosto la parte più torbida di sé. Un po’ “sturmer”, ora che ci penso!

Come si diventa poeti?

Si diventa solo qualcosa che si è già, forse. Probabilmente, allora, ci si scopre poeti più che diventarlo. Ma, ripeto, l’importante non è essere poeti, quanto portare il poetico nella propria vita in ogni sua forma, anche solo da fruitori: letteratura, pittura, scultura, architettura, videoarte, musica, teatro, cinema e altro ancora… Tutto ciò che consente d’ampliare la percezione del nostro esistere è poesia.

Simone Migliazza cosa vuole esprimere con le sue opere?

Credo che il denominatore comune al mio scrivere sia il tentativo di restituire la bellezza di quest’esperienza terribile che è la vita. E per bellezza intendo la ricchezza, la pienezza di sensazioni che può offrire esistere. Sensazioni che non si riducono al piacere o allo star bene, ma che comprendono dolore, sofferenza, “spleen”, senso dell’assurdo e incapacità di venire a patti con l’evento più significativo di tutti, la morte. Mantenerci in equilibrio con la vita nonostante la nostra finitezza, scegliere di continuare a vivere, è la sfida più difficile. Restituire il momento in cui si ha la percezione di tutto questo insieme, di cosa significhi essere nonostante le cose, ogni istante di più, corrano verso la loro fine. Dire di come, anche in queste condizioni, riusciamo a volte ad essere felici. Di questo credo di scrivere.

Cosa pensa sulla poesia in generale? E su quella contemporanea?

Amo la poesia contemporanea, così come la narrativa. Non credo che solo i classici abbiano qualcosa da dirci, proprio perché essi stessi un tempo sono stati “contemporanei” per i loro lettori. Certo, per capire ciò che resterà di oggi, ciò che sarà il classico di domani, una cosa solo serve, il tempo: resistere alla sua prova è l’unica verifica possibile e realmente significativa. Ma chi scrive lo deve fare nel presente, non credo debba riguardargli sapere se resterà o meno nella storia: risponde a un imperativo a cui non può sottrarsi, che dà senso alla sua vita. Tanto deve bastargli.

Vive le sue poesie oltre la stesura e lettura delle stesse?

Tutto quello che ho scritto finora è frutto d’esperienza concretamente vissuta. Una poesia nata da un non vissuto credo mancherebbe della cosa più importante, di verità.

Cosa prova Simone Migliazza quando legge le sue liriche?

Dipende. Nella maggior parte dei casi mi sembrano cose scritte da un altro: è una sensazione molto particolare.

Cosa vuol dire scrivere una poesia?

Dare voce alla vita, tutta insieme.

Quali sono i temi che prevalgono nelle sue opere?

Dietro alla diversità apparente dei temi, c’è un argomento solo, anzi, un tentativo costante: costruire una porta che dia accesso a un’esistenza “profonda”. Sono convinto che la vita quotidiana ci distragga dall’esperienza autentica della vita col rischio di andarcene senza aver realmente vissuto, senza averne succhiato il midollo, come diceva qualcuno.

Crede che la poesia sia una necessità espressiva?

Direi piuttosto che la poesia è uno strumento fra gli altri e che, come tale, può rispondere a una necessità espressiva.

Perchè la scelta della poesia e non la narrativa?

Proprio perché non è una scelta: ti ritrovi poeta così come ti ritrovi romanziere o musicista o pittore. Come dicevamo prima, diventi quello che sei.

Ha forse in progetto un nuovo libro di poesie?

Ci sto pensando. La prima domanda a cui credo si debba rispondere chi si presenta al mondo con un libro è: ce n’è veramente bisogno? “Un estuario fecondo d’isole” è la mia prima raccolta ed è stata accolta da un calore che non immaginavo ci sarebbe stato. Questo significa che non è vero che la poesia non interessi, che debba rimanere un genere di nicchia e che parli una lingua distante dalla vita: la cosa, senza dubbio, è incoraggiante.

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