Da giorni i notiziari parlano della sciagurata morte delle due ragazze sedicenni nei pressi di ponte Milvio, Roma, travolte da un’auto mentre attraversavano Corso Francia.
ISTAT certifica che nel 2018 gli incidenti stradali che hanno coinvolto dei pedoni sono stati 19.185, di cui 562 con esito mortale; 72 solo nella città di Roma. Numeri da guerra civile, che dovrebbero farci riflettere sull’urgenza di sostenere politiche rigorose a contrasto di queste stragi annunciate. Praticamente, come in una perversa roulette russa, partecipiamo tutti quanti a questa mattanza nella speranza di non essere noi quelli coinvolti in prima persona (salvo poi preoccuparci di contagi che hanno incidenze minimali al confronto).
Il sospetto, però, è che la notizia continui ad occupare le prime pagine della cronaca solo perché l’investitore è figlio di un noto ed apprezzato regista cinematografico: altre vittime già in questi giorni hanno aumentato la contabilità di un bilancio tragico e inaccettabile, senza che però venga data la medesima risonanza. L’opinione pubblica, da sempre è viziata da questa attrazione perversa per le vicende – anche, e soprattutto – drammatiche in cui sono coinvolte persone note.
Ma se dobbiamo parlare di quanto è successo – quali siano i motivi – tanto vale farlo mettendo al bando superficialità e luoghi comuni; e soprattutto senza dimenticare il rispetto assoluto per i familiari delle persone coinvolte: genitori, parenti e amici delle due vittime, ed anche quelli del giovane che, involontariamente, con colpa o meno, ha provocato la loro morte. Sui giudizi è meglio andare cauti: appurare le responsabilità – per quanto dovuto – non potrà comunque cancellare questa tragedia. E allora, se possibile, proviamo a ricavarne qualche insegnamento.
Vent’anni sono pochi per aver maturato quelle dosi di prudenza da diluire nei gesti quotidiani. Ma se è giusto pretendere dalle nuove generazioni rispetto per le regole di convivenza, le precedenti non possono non esimersi dal dare loro il buon esempio. Perché i comportamenti che si affermano – lo si voglia o meno – affondano le loro radici nella cultura condivisa: soprattutto quelli negativi, come la violenza di genere, il razzismo, il bullismo. Sono da considerarsi sintomi, non cause, perché esprimono un modo di sentire magari anche solo latente, un universo di senso che ne è misura e metro di valutazione. Altrimenti le persone si asterrebbero da certe azioni, se non ne ricavassero un feedback positivo dall’esterno – salvo poi essere messe all’indice quando le conseguenze si fanno troppo gravi per essere sottaciute.
Per questo è schifosamente ipocrita pontificare sul tasso alcolemico rilevato nel sangue del ragazzo: nel Paese dove, a fine pasto, praticamente in ogni locale il gestore offre ai clienti un amaro o una grappa, ISTAT rileva che il 75% degli italiani consuma alcool, gli etilisti superano i 3 milioni e 1 milione sono i bevitori a rischio. Non è certo questo il contesto adatto per spiegare ai più giovani i rischi che ciò comporta, sia per la loro salute che per la sicurezza di tutti. Piuttosto a dare loro la giustificazione per questi eccessi.
Come per il tabacco – nonostante i dati affermino l’estrema dannosità: 80 mila i decessi annui contro i 40 mila riconducibili all’alcool – esiste una ingiustificabile tolleranza che va contro ogni evidenza. Per non parlare della consuetudine di utilizzare il telefono cellulare alla guida: se i politici non si decidono a sanzionarlo in modo esemplare, è solo perché temono di perdere consensi di una parte significativa dell’elettorato. Ça va sans dire…
Un altro aspetto della questione sono gli scarsi controlli effettuati dalla Forze dell’ordine sulle strade (semplicemente perché hanno un costo) e anche le auto affidate dalle famiglie alla scarsa perizia dei giovani: anche in questa vicenda – e poco importa se magari è stato ininfluente – l’auto è un potente SUV. Insomma, da un lato si continua a celebrare i falsi miti dell’eccesso, della velocità, dello sballo, dall’altro si piangono le vittime ergendosi a censori dei buoni costumi, cercando colpe e cause per poterci assolvere. A quanto spiegano i telegiornali, l’imprudenza dei pedoni nell’attraversare quel tratto di strada dove le auto sfrecciano a forte velocità potrebbe tragicamente riproporre un incidente dello stesso tipo. E, ancora oggi, in Corso Francia non ci sono né autovelox, né dissuasori in grado di limitare l’irruenza degli automobilisti.
Ecco: quando nemmeno il prezzo pagato per i nostri errori ci induce a cambiare, allora alla tragedia della perdita di vite umane si somma quello di una società incapace di andare oltre i propri limiti. Mi vengono in mente le frasi irripetibili rivolte a Carola Rackete mentre attraccava al porto di Lampedusa, o le minacce che costringono la senatrice Liliana Segre – 90 anni, superstite dei campi di sterminio – costretta a girare con la scorta.
Nella terribile vicenda di Ponte Milvio, c’è un concorso di responsabilità e una dose di imprudenza che ha provocato un mix fatale; ma sbaglieremmo a fingere di non essere parte di questa vicenda (come di altre) a causa dei nostri esempi negativi che hanno l’effetto di assolvere i più giovani per comportamenti che, viceversa, andrebbero corretti per evitare di piangere inutili morti.