Non è tanto la crisi economica legata alla pandemia che fa gridare allo scandalo quando si parla degli stipendi di giocatori e allenatori, piuttosto il fatto che il calcio, complici gli stadi chiusi, si è allontanato sempre di più dalla sua dimensione popolare da cui trae apprezzamento e credibilità.
Ricchi, da sempre
Raimundo Orsi, ala sinistra argentina in forza alla già ricca Juventus tra il 1927 ed il 1935, guadagnava 8.000 lire al mese, mentre un operaio dell’epoca non superava le 300 lire, il 3.75% dello stipendio del calciatore.
Alla fine degli anni Settanta, Gianni Rivera, incassava 70 milioni di lire annui, contro le 352.000 lire mensili del “solito” operaio (0,5%): la proporzione si mantiene stabile, anche grazie ai miglioramenti salariali concessi ai lavoratori, ma precipita allo 0,02% nel 1994 e allo 0,008% nel 2001.
Un divario enorme, stemperato però dal fatto che oggi solo il 9% dei calciatori professionisti supera i 700.000 euro anni di retribuzione (senza considerare che la loro carriera non supera i dieci-quindici anni).
Soldi ma non per tutti
Con l’avvento delle sponsorizzazioni, e soprattutto dei soldi derivanti dai diritti televisivi, il mondo del calcio ha aumentato la sua disponibilità di denaro.
L’immissione di capitali in un sistema non equilibrato (esattamente come avviene nella società) ha però avuto l’effetto di aumentare le disuguaglianze.
Le società più forti hanno attratto maggiori capitali, accentuando la loro forza rispetto alle piccole: non è un caso se sempre le stesse vincono i tornei nazionali e internazionali.
Lo sport come spettacolo
La fruizione delle partite attraverso il video (e la possibilità di veicolare la pubblicità che ruota attorno ai giocatori su scala planetaria) ha reso il calcio sempre meno rappresentativo – per i tifosi e per il territorio – e sempre più spettacolo.
Il suo target non sono solo i tifosi, ma i clienti delle diverse opzioni (stadio, tv, merchandising); e trasformato i suoi interpreti in attori di una rappresentazione mirata a vendere il prodotto.
Già da qualche anno la misura si stava facendo colma: stadi semivuoti, calo di abbonamenti alle pay tv; poi la forzata chiusura degli stadi a causa della pandemia ha accentuato questa percezione, e sollecitato alcune riflessioni riguardo gli stipendi milionari dei calciatori.
La falsa questione morale
In realtà, la questione non appare posta correttamente. Se il calcio è uno spettacolo, potremmo fare lo stesso ragionamento per altri interpreti.
Forbes ha stilato una classifica degli attori più pagati nel 2020: ne riportiamo alcuni: Dwayne Johnson: $ 87,6 milioni; Ryan Reynolds: $ 71,5 milioni; Mark Walhberg: $ 58 milioni;Ben Affleck: $ 55 milioni.
Cifre che superano di gran lunga quelle che girano nel mondo del calcio. Ma l’opinione pubblica non ha mai manifestato la stessa sensibilità. Nessuno si scandalizza per i cachet degli attori: i produttori spendono 10 nella speranza che il film incassi 50.
L’attore più amato, potenzialmente in grado di attrarre più spettatori, è pagato meglio. Esattamente come il centravanti che fa 30 gol l’anno.
Lo sport come business
Ne avevamo già parlato (anche nei termini più ampi di giustizia sociale) quando la Juventus acquistò Cristiano Ronaldo: di come, cioè, l’operazione si configurasse come un investimento, piuttosto che un azzardo:
Ma snaturarsi non è un problema solo del calcio: la finalità di intensivo sfruttamento commerciale di qualunque prodotto ne ha inevitabilmente stravolto le caratteristiche di base, perché ha portato a progettarlo e realizzarlo in funzione del bacino di utenza della potenziale clientela.
La partita di calcio, diviene così solo un pretesto per la passerella di abbigliamento sportivo griffato; il film per creare oggetti di tendenza e poterli vendere; il libro, la possibilità di guadagnare dagli spazi pubblicitari che interrompono la trasposizione televisiva (l’unico modo per farlo fruttare, data la scarsa propensione alla lettura degli Italiani e non solo).
Per questo alcuni hanno avanzato l’ipotesi che Ronaldo (il “Fenomeno” brasiliano), per rispettare il contratto con lo sponsor, sia stato costretto a scendere in campo nella finale dei mondiali di calcio del ‘98 nonostante le sue precarie condizioni fisiche, condizionando di fatto l’esito della partita.
Oppure che alcuni film a cui viene associato merchandising (pensiamo alla saga infinita di Star Wars o alle produzioni Disney), o libri da cui vengono tratte riduzioni televisive poco dopo la loro uscita forse sarebbero stati diversi; molto probabilmente.
La corda che si spezza
Ma lo spettacolo, nello sport, è solo un aspetto, e – diversamente dal cinema – non è quello peculiare.
Alla base della sua popolarità (in particolare del calcio) c’è la sua capacità di interpretare in modo allegorico le dinamiche sociali, e in quanto tale non può prescindere dal suo legame con le persone. Altrimenti si riduce ad essere una sorta di asettico videogioco, pure interpretato da atleti in carne e ossa.
Ovviamente si tratta di una finzione: i giocatori che rappresentano la squadra di una città (con l’eccezione della gloriosa Pro Vercelli degli anni ‘20 e ‘30) provengono da altri luoghi, dell’Italia e del mondo; e soprattutto sono pagati per farlo.
Ma l’illusione che tiene in piedi questa rappresentazione non permette di oltrepassare certi limiti; uno di questi sono gli stipendi, ma soprattutto il peso degli interessi dei procuratori che condizionano le carriere degli atleti con lo scopo di farli guadagnare sempre di più, anche cambiando casacca ogni anno.
Un altro è il divario incolmabile tra le squadre che toglie competitività ai tornei – paradossalmente ottenuto anche attraverso indebitamenti che di fatto falsano la competizione: non a caso si parla di doping amministrativo. Anche nel campionato appena terminato.
Se poi la cornice del tifo viene a mancare, ecco che il re è nudo: il calcio che non è espressione delle persone – come Oriazi e Curiazi combattevano per Roma e Alba Longa – perde tutto il suo appeal e diventa solo una possibile opzione tra diversi spettacoli.
Oltre la gabbia d’oro degli sponsor
Il paradosso, è che, se da un lato le persone si sentono sempre meno coinvolte da un calcio derubricato a mero intrattenimento, dall’altro, questa deriva resta comunque rappresentativa della società nella quale viviamo e delle sue dinamiche.
Ma, come l’arte non è semplicemente riproduzione ma interpretazione, anche il calcio, per mantenere viva l’allegoria che mette in scena e il suo legame con le persone che si sentono rappresentate dai suoi campioni, deve necessariamente riproporre i valori della lealtà, dello spirito di corpo, dell’affetto ai colori che rappresenta.
E per farlo, credo non possa far altro che smarcarsi e uscire dalla gabbia d’oro delle sponsorizzazioni e dei diritti televisivi che sempre di più lo costringono ad essere altro da ciò che è.
E recuperare quella spontaneità che, da un secolo, permette alle persone di tutto il mondo di immedesimarsi e sentirsi parte delle simboliche contese sul campo che contribuiscono a soddisfare, attraverso la catarsi del fischio finale, quel bisogno di gioco che rafforza il senso di identità e che è tratto fondamentale delle società di ogni epoca.