Il 19 febbraio 1861 lo zar Alessandro II firmò il manifesto di emancipazione. L’abolizione della servitù della gleba fu uno spartiacque nella storia russa, il punto di partenza dei processi di ammodernamento verificatisi in epoca contemporanea
L’abolizione della servitù della gleba in Russia fu decisa dallo zar Alessandro II. L’eliminazione del servaggio fu sicuramente il segno tangibile di un progetto di rinnovamento culturale e di superamento dell’arretratezza in cui il vasto territorio versava.
Innanzitutto cosa è stata la servitù della gleba? Essa è stata una figura giuridica diffusa soprattutto nel Medioevo; attraverso questo status i contadini venivano vincolati dai padroni ad un determinato terreno (in lingua latina la gleba è propriamente “zolla di terra”). Ancor prima del Medioevo, istituzioni sociali simili alla servitù della gleba comparvero nell’antica Roma: Diocleziano per esempio con un provvedimento autoritativo confinò gli uomini dei proprietari dei fondi al terreno che coltivavano. Dall’Impero Romano passando per il Medioevo arriviamo all’editto di Federico I di Danimarca nel 1524. Con questo documento il sovrano garantì a tutti i proprietari terrieri la giurisdizione sui loro sudditi. Nel sedicesimo secolo la servitù della gleba si affermò quasi ovunque, ed in alcuni territori, soprattutto nell’area tedesca, molti contadini liberi furono ridotti alla condizione di servi della gleba.
In Russia i vincoli imposti dal servaggio furono piuttosto rigidi; con Caterina II di Russia la forma della schiavitù fu estesa anche all’Ucraina. La legge della servitù della gleba resistette in Russia sino al 1861; quando salì al trono Alessandro II l’eliminazione del servaggio fu tra le prime azioni del suo significativo e importante riformismo.

Alessandro II e la “servitù della gleba”
Non appena Alessandro II salì al trono manifestò l’intenzione di abolire la servitù della gleba. L’annuncio sortì l’effetto immediato di innescare un vivo dibattito nei circoli intellettuali: i sostenitori della riforma potevano ora far sentire la propria voce, condizionando, come mai nel passato, le scelte dei vertici dello Stato. È certo d’altronde che lo zar e i suoi collaboratori fecero ricorso, per convincere i nobili riluttanti, all’argomento che sarebbe stato meglio emancipare tempestivamente i servi “dall’alto”, piuttosto che attenderne la liberazione “dal basso”. Il Comitato segreto, (poi Comitato centrale), costituito all’inizio del 1857 dallo zar per discutere della questione contadina, ebbe un orientamento conservatore. Alla proposta di emancipare i contadini senza terra; avanzata dalla nobiltà baltica, Alessandro II rispose con il Rescritto di Nazimov, documento che aprì le porte allo Statuto generale sull’emancipazione, nel quale per i territori sul Baltico fu stabilita una soluzione moderata, che respingeva però la richiesta di privare i contadini della terra: la nobiltà conservava i diritti di proprietà e i compiti di polizia e di amministrazione locale, ma era tenuta, previo risarcimento, a lasciare ai contadini casa e podere e a consentire loro di lavorare parte della terra.
Verso la fine del 1858, lo zar prese la decisione di liberare i contadini preservandone il possesso della terra. Nel febbraio 1859 costituì la Commissione di redazione, della quale facevano parte anche non funzionari, incaricata di preparare il progetto di riforma. Dopo l’approvazione al Consiglio di Stato, il 19 febbraio 1861, Alessandro II firmò il Manifesto di emancipazione. Le linee – guida della riforma furono le seguenti: i nobili, riconosciuti giuridicamente come proprietari, erano tenuti a garantire agli ex servi l’uso perpetuo della casa e una parte delle terre arabili in cambio di un sostanzioso indennizzo. La riforma del 19 febbraio 1861 fu un provvedimento la cui rilevanza nella storia mondiale non può essere trascurata: ha interessato infatti più di 50 milioni di contadini, trasformati da servi in uomini liberi.