I movimenti di piazza possono essere interpretati in modo contrastante, e non solo in relazione all’orientamento che manifestano. In generale, si conviene che interpretino in modo spontaneo sentimenti e rivendicazioni che sono propri dei cittadini: una forma, insomma, di democrazia diretta – in aperta contrapposizione con la sempre meno popolare rappresentatività della politica. Ma non sempre è così.
Nonostante le apparenze, la democrazia diretta è una delle forme più difficili da esercitare, perché – nonostante gli ultimi trenta anni abbiano veicolato un messaggio di rifiuto verso i partiti politici – l’assenza di una mediazione tra le istanze di base (che non necessariamente sono legittime o sensate) e la gestione amministrativa rischia di provocare pericolosi corto circuiti.
I partiti (ma anche le associazioni di una certa importanza) fanno parte dei cosiddetti “corpi intermedi” in grado di interpretare e rappresentare una serie definita di valori e porli all’attenzione dell’agenda politica. Contrariamente allo spirito che ha animato il voto di protesta delle elezioni di marzo 2018, il problema non è quello di scavalcare la mediazione dei partiti, ma di esprimere rappresentanze politiche realmente rappresentative.
Tra “movimenti” e “partiti” c’è (o ci dovrebbe essere) la stessa differenza che passa tra l’esprimere un bisogno e progettare le soluzioni per esaudirlo. Ciò non toglie che queste due forme di rappresentanza non siano complementari, ma a patto che entrambi siano espressione di una storia e di valori: ciò che una volta valeva – al netto degli errori – per la CGIL e il PCI, ad esempio.
Quello che si è rotto nel meccanismo che permette la reale espressione della democrazia, è proprio il vincolo di rappresentanza: molte delle persone che animano i movimenti hanno infatti smarrito ogni prospettiva politica – ma se davvero hanno a cuore il Paese, è a questo che devono tendere, e non cadere nella trappola dell’auto-referenzialità, altrimenti il loro destino è segnato, e sono destinato o a implodere o ad esaurire a poco a poco il loro slancio.
Prima di tutto perché non tutte le istanze espresse dalla piazza sono compatibili con il dettato costituzionale: una manifestazione che promuove razzismo o ideologie fasciste, non esprime una opinione, ma contraddice il patto alla base della società in cui viviamo. Collocarsi all’interno della società per forza è un atto politico, lo si voglia o no – non è possibile non tenere conto del contesto nel quale viviamo, con buona pace di chi parla di superamento tra destra e Sinistra.
Poi perché – nonostante le opportunità offerte dai social – è difficile credere che i movimenti non siano etero-diretti e la loro forza strumentalmente convogliata in direzioni arbitrarie: pensiamo al movimento 5stelle, che da opposizione al sistema, ha permesso alla Lega di governare e far crescere il proprio gradimento nel Paese (con questo non intendo dire che dietro di loro ci fosse una forza di destra, ma – più gravemente – che la mancanza di una collocazione e di valori di riferimento produce inevitabilmente una deriva in tal senso).
Infine (soprattutto) perché protestare ha un senso solo nell’ottica di una strategia politica: farlo è un diritto, ma non basta; ai problemi occorre contrapporre soluzioni, altrimenti il clima favorisce l’irrazionalità di chi promette, in malafede, di accontentare le richieste solo chiedendo una delega in bianco. Pensiamo all’anno di governo in cui la Lega ha indicato nell’immigrazione il problema del Paese.
Le piazze sono importanti, perché hanno la capacità di fare tendenza, nel bene e nel male; per questo non vedo di cattivo occhio i movimenti animati da Greta Thunberg e il recente cosiddetto “delle sardine. Non credo alla loro efficacia in termini di pressione politica, ma confido nel fatto che attirino – specie i più giovani – ad impegnarsi sui temi che rivendicano. Ma il vero luogo nel quale – a mio parere – può avvenire il cambiamento sociale, non è quello, ma la dimensione individuale.
Se pensiamo al ‘68, all’autunno “caldo” della protesta operaia al ‘77 e ai grandi scioperi che vedevano in prima fila le bandiere del PCI, possiamo dare una lettura retrospettiva al fenomeno – valutarlo cioè non come avanguardia, ma sintomo di un cambiamento che era già in atto. E anche ipotizzare che, se davvero ogni manifestante avesse vissuto la propria vita conformandola ai valori promossi dalle piazze di cui era parte, probabilmente oggi non assisteremo al vuoto di valori che è vera cifra della nostra contemporaneità, non solo italiana.
Nel protestare, non possiamo esimerci di avere – chi più chi meno – una quota di responsabilità nel modo in cui la società attuale ha consolidato la sua forma. Di aver fatto male, o non abbastanza. Da qui, da come ognuno di noi può migliorarsi, parte la riflessione per un mondo migliore. Senza doversi accodare ad un leader o uno slogan – finalmente protagonisti di un cambiamento fino ad oggi mai davvero avvenuto.