Ricordando Kurt Cobain: un omaggio al compianto frontman dei Nirvana

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Kurt Cobain of Nirvana during the taping of MTV Unplugged at Sony Studios in New York City, 11/18/93. Photo by Frank Micelotta. *** Special Rates Apply *** Call for Rates ***

“Cobain è uno degli artisti più sopravvalutati della storia. Cantava male, non sapeva suonare e se non si fosse sparato non avrebbe avuto il successo che ha ora”
Quante volte ho sentito quest’affermazione venire fuori nelle discussioni tra amici, conoscenti o perfetti sconosciuti. Sono passati 23 anni dalla sua morte, ma Kurt Cobain riesce tuttora ad essere sulla bocca di molti e a seminare discordia, come piaceva a lui.

Morto troppo giovane, a quell’età maledetta che fa sempre venire un brivido a chi ha una minima infarinatura di storia del rock. Probabilmente suicida, ma c’è chi addita la moglie Courtney Love, frontwoman delle Hole, come becera e spietata assassina ed è disposto a trattenerti due ore per illustrarti tutte le (presunte) prove che riconducono alla sua mano. Del resto, tanto, troppo mistero aleggia intorno alla morte di Kurt. Nessuno se lo aspettava, in un periodo così promettente. Pochi mesi prima aveva offerto al pubblico di MTV uno dei migliori live unplugged della storia e da un po’ di tempo stava seguendo un programma di disintossicazione. Oltre a un testamento, lascia una figlia nata da poco, uno speranzoso futuro libero dall’eroina e una carriera musicale in pieno volo. Ed è un evento che fa male ancora oggi. Non si è trattato del suicidio di una rockstar eroinomane con manie di protagonismo, ma di una resa incondizionata e devastante. Dopo una lunga battaglia intrapresa fin dai primi anni dell’adolescenza, Kurt Cobain si è arreso e ha cercato il congedo nel modo più rapido e difficile possibile.

E dire che quella battaglia aveva appassionato tanti. Nel 1994, data della morte di Cobain, i Nirvana si fregiavano di tre album in studio (di cui due, Nevermind In Utero, costituivano successi discografici straordinari), una raccolta di inediti e una lunga serie di live assolutamente fuori dalle righe. La band di Seattle, un power-trio composto da Kurt, Krist Novoselic (basso) e il politropo Dave Grohl (batteria), era divenuta senza volerlo il fiero araldo di quella rivoluzione grunge che molti considerano l’ultimo orgoglioso spasimo del rock internazionale. Milioni di adolescenti (e non solo) trovavano in Kurt Cobain e in inni come “Smells Like Teen Spirit” la prova che il disagio che li attanagliava non solo era condiviso, ma poteva essere il motore di un qualcosa di grande.  Per spiegare meglio quello che intendo, vi sfido a trovare qualsiasi teenager che tutt’oggi non si riconosca in una frase tanto semplice e allo stesso tempo complessa come “I’m not like them, but I can pretend” (“non sono come loro, ma posso fare finta”; dal brano “Dumb”). Fino ad allora solo i sixties erano riusciti a riunire così tanti ragazzi sotto l’egida della ribellione e della lotta contro le vecchie generazioni. Cobain soffriva, è vero, ma si rifiutò di tenere quel veleno dentro; scrisse canzoni cariche di una sensibilità che solo chi ha sofferto e non si è mai sentito veramente “parte del gruppo” è in grado di palesare.

I concerti dei Nirvana erano delle catarsi collettive. Kurt, Krist e Dave davano tutto su quei palchi: sudore, fatica e dolore. Il frontman di Aberdeen si martoriava ogni volta le corde vocali, spaccava ampli e strumenti e a fine concerto sputava sangue nei camerini. E andava bene così, stava mettendo tutto sé stesso. Mi sono sempre rammaricato di essere nato troppo tardi per poter partecipare ad un loro live. Le canzoni di Kurt, da quelle più violente e viscerali a quelle più intimiste, hanno accompagnato e sostenuto anche la mia adolescenza. Quei brani hanno qualcosa che tocca nel profondo, sono veicolo di messaggi così intimi e soggettivi da essere universali.

Kurt Cobain non sapeva cantare, è vero. La sua voce però trasmetteva molta più passione e sensazioni rispetto ad una normale voce intonata.
Suonava la chitarra da mancino, come Jimi Hendrix. Ma al contrario di Hendrix (con cui condivide il 27 Club) non era bravo a suonare lo strumento. Eppure nel guardare le storiche riprese dell’ Unplugged in New York, nel vedere quel ragazzo introverso abbracciato alla sua acustica, come ad uno scudo, è facile rendersi conto della perfetta sintonia che si creava tra l’artista e la compagna delle sue canzoni. Ed è proprio quel concerto che io raccomando sempre a tutti di vedere/ascoltare, che siano detrattori o meno. Perché è lì che è racchiusa tutta l’essenza, nuda e cruda, dei Nirvana e di Cobain. Niente artifici, niente distorsioni, niente esibizionismi: solo dei giovani musicisti americani che fanno buona musica, e a guidare il tutto un capitano immortalato in tutta la sua fragilità e incredibile creatività.

“In the sun I feel as one” 
(All Apologies, dall’album In Utero)