Questa crisi non è la prima né sarà l’ultima: in una società globalizzata, interdipendente sul piano economico ma anche politico, è fisiologico che l’equilibrio complessivo venga ciclicamente turbato. Gli attribuiamo aggettivi diversi (umanitaria, economica, sanitaria), ma la verità è che tutti questi livelli sono sempre correlati tra loro, e che il nostro modo di reagire è dettato non dall’importanza di quanto sta avvenendo, ma in modo direttamente proporzionale a quanto i suoi effetti danneggiano chi detiene il potere.
Crisi umanitarie
Tra il 2013 e il 2019, oltre 19mila migranti sono morti nel tentativo di attraversare lo stretto braccio di mare che separa il Nordafrica dalle coste italiane. Se vogliamo fermarci al solo dato numerico, stiamo parlando di una cifra che attualmente è oltre il doppio di quello delle vittime del coronavirus (in realtà delle sue complicanze in situazioni di comorbidità in pazienti fragili, mentre il tentativo di raggiungere il nostro Paese è causa diretta della loro morte). Eppure, la risposta è stata specularmente opposta a quella della mobilitazione generale; guardia costiera e ONG non erano “i nostri soldati in prima linea” come i medici e gli infermieri di questa deprecabile retorica militare dei nostri giorni, ma considerati persino “nemici dell’Italia”.
In realtà anche queste crisi umanitarie – che proseguono nel silenzio dei media – sono qualcosa che ci riguarda direttamente, e non solo su un piano etico: il nord del mondo da sempre fonda il suo benessere sullo sfruttamento sistematico delle risorse e delle popolazioni del sud. E poi ci sono decenni di giurisprudenza internazionale consolidata sui profughi di guerra. Ma la risposta – peraltro già avanzata da qualcuno anche di fronte al pericolo del coronavirus – è stata quella di chiudere le frontiere, di allontanare le vittime e, con esse il problema.
Le dimensioni quantitative dell’epidemia
Oggi tutti i problemi sembrano essersi coagulati attorno alla diffusione del coronavirus; che, sul piano della pura statistica, continua ad essere contenuto in dimensioni senz’altro relative. Ma, nonostante questo, gli viene attribuita una importanza capitale, come in altre situazioni sanitarie (penso alla presunta “epidemia” di meningite in Toscana, con 122 casi in cinque anni): un’importanza che potrebbe benissimo essere riservata anche altri fenomeni di altrettanto grave – se non di più – importanza, anche solo sul piano della quantità (da ogni altro punto di vista ogni morte resta una tragedia assoluta).
La priorità (e quindi la gravità) attribuita dai nostri governanti a ciò che accade non sembra essere quindi figlia di valutazioni nel merito e anche legate al contesto (come ad esempio i dati relativi alla mortalità legati ad altre patologie, o i 45.600 decessi in Italia nel solo 2006 correlati alle polveri sottili, in larga misura proprio nelle regioni del nord).
Questa priorità nasce solo dal fatto che nel mirino ci troviamo noi, e che nessuno ci guadagna per questo.
Questa crisi non è la prima né sarà l’ultima. Ma quando si distingue tra “noi” e gli “altri”, le divisioni si moltiplicano senza fine. Ed ecco oggi che l’Europa, apparentemente unita dai disagi provocati dall’epidemia, si riscopre, anziché unita, ferocemente nazionalista. Perché è chiaro che quando tutto questo sarà finito, gli equilibri di forza saranno cambiati, e nessuno vuol perdere l’occasione di trovarsi sui primi gradini del podio, tra tutti – come sempre – Francia e Germania.
Cosa potremmo imparare da tutto questo
Quando tutto sarà finito, potremmo serenamente fare una riflessione anche sulla portata di quanto sta accadendo, riportando i numeri nell’alveo del loro contesto e approfittando dell’esperienza per ripensare non solo il sistema sanitario, ma l’organizzazione del lavoro su scala globale, rendendo ad esempio strutturale le forme di smart working giocoforza sperimentate in queste settimane. Potremmo ripensare anche le infrastrutture per adeguarle alla società di anziani che stiamo diventando, e i rapporti tra le persone, riscoprendo l’imprescindibilità della solidarietà come elemento fondante della democrazia.
Questa crisi non è la prima né sarà l’ultima. Ma non sembra essere questo il criterio che guida la ricerca di una soluzione. L’utilizzo stesso di termini mutuati dal linguaggio militare getta una luce oscura su un momento nel quale il problema sanitario si sovrappone a quello sociale. Decine di migliaia di persone sole isolate nei loro appartamenti; piccole e medie imprese che rischiano il fallimento; il disagio di un’Europa che si scopre fragile, senescente e medicalizzata, fondata su logiche produttive obsolete e non sostenibili, su democrazie clientelari che si appoggiano a feroci dittature ai margini dei loro confini.
E il virus assume una così grande importanza nell’agenda politica perché mette in evidenza la fragilità dei sistemi di welfare, deupaperati di risorse da oltre vent’anni, inducendo nei cittadini timori giustificati rispetto alla possibilità di ricevere cure adeguate (anche se in Italia le cose stanno andando bene da questo punto di vita), ma soprattutto dubbi sul loro operato. La situazione è grave, ma non più di altre; ma non c’è niente di più spaventoso per i politici di una situazione rispetto alla quale possono correre il rischio di perdere consensi.