Il commento dei dati pare oramai univoco: in quasi tutto il Paese, nonostante il costante aumento dei contagi, calano le persone ricoverate, sia in reparto che in terapia intensiva: è l’indicatore che abbiamo preso in considerazione nel monitoraggio che abbiamo svolto sin dallo scorso 25 febbraio.
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Le caratteristiche della pandemia
Per oltre un mese è stata data enfasi alla dimensione geografica del contagio e delle sue vittime; oggi, l’attenzione è incentrata su quella che sembra essere una nuova criticità: le residenze assistenziali che ospitano anziani e disabili, ancora una volta senza mettere in risalto le tre principali evidenze di questa pandemia.
Primo: circa l’80% dei contagiati sono asintomatici (o paucisintomatici); il 14% deve ricorrere a cure ospedaliere e il restante alla terapia intensiva. Secondo: la quasi totalità delle vittime era affetta da patologie pregresse ed in età avanzata. Terzo: poiché il virus si propaga attraverso un contatto non protetto tra persone, è evidente che sono i luoghi di aggregazione il suo terreno più fertile
La mappa del contagio e quella della vittime
Alla luce di queste tre variabili, la mappa del contagio può essere ricostruita a priori solo attorno ai casi più gravi, perché è possibile che ci siano in alcuni territori numeri altissimi di contagiati asintomatici non tracciabili, ma soprattutto sulla base di precise specificità della popolazione che li abita.
Fermo restando l’epicentro iniziale nel luogo più dinamico del Paese in fatto di transito di persone, (la Lombardia e in particolare l’hinterland di Milano), evidentemente il virus si propaga e restituisce i suoi effetti più tragici laddove c’è la compresenza di due fattori: contatto ravvicinato e popolazione fragile (età avanzata e/o gravi patologie pregresse). Le residenze per anziani sono pertanto da subito il focolaio perfetto; e anche i piccoli paesi composti prevalentemente da persone in età avanzata. poco importa dove si trovino, al nord o al sud del Paese.

A che punto siamo
Abbiamo detto che la curva dei contagi è stabile, e che è invece in diminuzione quella dei ricoverati: è l’effetto sperato delle restrizioni alla circolazione delle persone. Ma come si traduce questa fase della pandemia in termini di sicurezza per la popolazione? Aver superato il picco dei contagi (o essere prossimi a farlo) è garanzia del contenimento del virus, e soprattutto dei suoi effetti? Quanto tempo ancoradobbiamo aspettare per tornare alla normalità?
La questione è solo apparentemente complessa. Il contenimento dei contagi attraverso l’isolamento ha permesso il raggiungimento dei due obiettivi prefissati: permettere al servizio sanitario, a prezzo di grandi sforzi, di reggere l’urto di un numero di ricoverati alto e concentrato in un arco di tempo breve, ed evitare il contagio di moltissime persone a rischio. Tutti quanti sono stati curati in modo appropriato: nessun ospedale ha lasciato qualcuno fuori dalla terapia intensiva per mancanza di posto. Ma le persone più fragili, che non si sono ammalate perché non hanno avuto contatti, restano esposte quanto prima.
La fase 3, ovvero: la fine delle restrizioni
Sino ad oggi non abbiamo “lavorato” per eliminare i pericoli del virus, ma solo per contenerlo; e le autorità, solo per motivi di ordine pubblico, stanno disponendo restrizioni a cadenza quindicinale, ben sapendo che inevitabilmente dovranno essere prolungate senza sapere fino a quando. Se ricominciamo a fare la vita di prima, inevitabilmente i contagi aumenteranno. La sicurezza per le persone – in particolare quelle a rischio – potremo averla solo in due casi: con l’introduzione di un vaccino testato, o con l’azzeramento dei contagi in tutto il continente. Non sarebbe sufficinete solo in Italia.
Anche se tutta la popolazione fosse sottoposta ad un test sierologico (le difficoltà sono evidenti, su più livelli), risulterebbe una quota di portatori sani in grado di mettere in pericolo le persone più fragili. Ed è parimenti impensabile confinare tutti quanti sono potenzialmente a rischio all’auto isolamento, anche dai propri cari.

Un modello di salute da ripensare
Dunque, aldilà dei numeri, le prospettive restano incerte. E questo perché il nostro modello di salute – che pure garantisce una altissima sopravvivenza – si basa più sulla medicalizzazione che sulla prevenzione. Oltre le inevitabili complicanze portate dall’età (e siamo un Paese sempre più anziano, per questo i morti sono così tanti), abbiamo una quota significativa di persone non ancora anziane che stili di vita – fumo ed alcool – e di alimentazione rendono attaccabili da ipertensione, diabete, patologie vascolari, cardiache o polmonari.
In punta di metafora, come a L’aquila nel 2009, il terremoto è la causa scatenante, ma la tragedia è prodotta dalla fragilità delle infrastrutture su cui ha agito. Su questo dobbiamo lavorare, ripensando sin dalle basi il nostro concetto di salute e il contributo che potremmo dare individualmente al servizio sanitario pubblico, ma soprattutto alle nostre vite.