venerdì, Aprile 19, 2024

Proteste LGBTQ in Tunisia: Rainbow is the new Black

Proseguono le proteste Lgbtq in Tunisia a favore della scarcerazione di una nota attivista. Dura la repressione da parte delle forze dell’ordine, come denunciano i gruppi per i diritti umani e confermata dallo Human Rights Watch (HRW). Anche se visto il modo in cui le autorità hanno risposto alla manifestazione ci si chiede se davvero sia cambiato qualcosa dalla rivolta della Primavera araba. Ecco alcune testimonianze.

Proteste Lgbtq in Tunisia: cosa si chiede?

Le proteste Lgbtq in Tunisia chiedono la scarcerazione di Rania Amdouni, l’attivista militante con identità queer arrestata il 27 febbraio scorso. Amdouni si era recata dalle forze dell’ordine per denunciare una serie di minacce e diffamazioni nei suoi confronti “da parte dei sindacati delle forze di sicurezza ed estremisti di destra“. Il 4 marzo la sentenza del Tribunale di Beb Bnet, a Tunisi, l’aveva condannata a sei mesi di reclusione con effetto immediato. L’accusa era di “oltraggio a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni“. Un delitto rientrante nelle fattispecie di “attentato alla morale pubblica“. A riportare la vicenda è stata l’associazione tunisina per la Giustizia e la Legalità Damj, di cui fa parte la stessa Amdouni. Già lunedì, il gruppo per i diritti gay aveva espresso forte disappunto per il verdetto e organizzato un sit-in di protesta davanti al palazzo di giustizia.

Le istanze

Come riporta ANSAMed, i dimostranti sostenuti da tre partiti politici (Echâab, Attayar e El Watad) si sono riuniti a Avenue Bourguiba. Al corteo hanno preso parte anche diverse organizzazioni della società civile tunisina, tra cui l’Ong Intersection Association for Rights and Freedoms. Dalla via centrale della capitale i manifestanti hanno inneggiato slogan contro il partito islamico Ennhadha e alcune sue politiche “repressive”. A centinaia hanno chiesto “libertà per Amdouni” e altri tunisini arrestati durante le manifestazioni in corso dall’inizio dell’anno. Inoltre, gli attivisti hanno invocato la depenalizzazione del consumo di stupefacenti, un reato per il quale vengono condannati molti giovani tunisini ogni anno. Giovedì l’avvocato di Amdouni, Amine Hadiji, ha confermato il fermo del pubblico ministero.

Proteste Lgbtq: le cause

In passato, la Tunisia era stata presa a esempio per essere il primo paese nordafricano a completare con successo la transizione democratica. Eppure, l’ondata di manifestazioni in corso da inizio anno sembra suggerire un quadro assai diverso. In effetti, le proteste Lgbtq erano iniziate il 15 gennaio 2021. Il giorno successivo al decimo anniversario della Rivoluzione meglio nota come Primavera araba. In modo del tutto pacifico, i manifestanti avevano chiesto, tra le altre cose, l’uguaglianza sociale e l’accesso al lavoro dopo il peggioramento delle condizioni economiche. Aggravate dalla pandemia e alimentate dall’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Tuttavia, diversi gruppi per i diritti hanno denunciato le autorità di aver eseguito più di 1.000 arresti immotivati per “spaventare” i manifestanti. Molti di loro sono ancora in prigione.

La dura risposta delle autorità

In una dichiarazione del 5 febbraio il primo ministro Hichem Mechichi aveva rincarato la dose. Infatti, il premier aveva affermato di aver incontrato le forze dell’ordine e averle elogiate per la loro “professionalità nell’affrontare le proteste“. Inoltre, Mechichi aveva messo in guardia contro i tentativi dei manifestanti di “attirare le forze di sicurezza affinché usassero violenza contro di loro“. In realtà, la colpa degli abusi sarebbe solo delle forze dell’ordine, come ha denunciato l’Osservatorio per i diritti umani (HRW). Secondo lo Human Rights Watch, infatti, “Il targeting ha comportato arresti arbitrari, aggressioni fisiche, minacce di stupro e di uccisione e rifiuto dell’accesso all’assistenza legale“. Inoltre, i sindacati di polizia avrebbero diramato sui social i dati sensibili di alcuni manifestanti “rivelando le loro informazioni personali, inclusi indirizzi di casa e numeri di telefono. E pubblicandoli“.


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Gli abusi nelle proteste Lgbtq

Dei 10 attivisti Lgbtq intervistati dallo Human Rights Watch tutti hanno affermato di aver subito una qualche forma di abuso da parte delle autorità. “Tutti gli attivisti intervistati hanno affermato che la polizia li ha molestati verbalmente e minacciati di violenza. Di questi, tre sono stati minacciati di stupro e cinque di morte“. Come ha riferito l’Osservatorio, “A seguito delle molestie online, le persone intervistate hanno affermato di ritenere di dover lasciare le proprie case e i quartieri ed eliminare i propri account sui social media“. Mentre Insaf Bouhafs, coordinatore del programma LGBTI di Avocats Sans Frontières (Avvocati senza frontiere), ha spiegato che la sua associazione ha documentato oltre 1.600 arresti durante le proteste. Di cui quasi il 30% nei confronti di minori, detenuti in carcere assieme agli adulti.

La dichiarazione

Rasha Younes, ricercatrice per i diritti delle lesbiche, gay, bisessuali e transgender di HRW ha commentato: “Gli attivisti LGBTI che persistono nella protesta sono terrorizzati dal fatto che le forze di sicurezza li individuino durante le proteste, li radunino e abusino di loro impunemente“. Al contrario, lo Stato dovrebbe garantire il diritto alla privacy, all’integrità fisica, alla libera circolazione. Alla libertà di espressione, riunione e associazione. Oltre che il diritto alla non discriminazione e le tutele previste dalla legge. Anche in rete. “Le forze di sicurezza hanno l’obbligo di proteggere il diritto alla protesta pacifica“, ha soggiunto Younes. “Non molestare gli attivisti il ​​cui coraggioso impegno ha contribuito alla reputazione della Tunisia come leader regionale nel suo progresso sui diritti umani“.


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Proteste Lgbtq: il background

Nel gennaio 2011, la Tunisia era diventata il primo paese nell’area MENA (Middle East and North Africa) a cambiare il suo regime autocratico attraverso una rivolta popolare diffusa e pacifica. Nel 2014 il paese nordafricano aveva consolidato tale obiettivo approvando la propria Costituzione. L’ultimo passaggio sarebbe stato infondere lo spirito democratico nelle sue leggi. E tutelare tutti i cittadini, nessuno escluso. A tal fine, il 9 giugno 2014 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) aveva istituito a Tunisi la Commissione per la verità e la dignità (TDC). Il comitato avrebbe dovuto indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato sin dalla sua indipendenza. Oltre a fornire i risarcimenti e la riabilitazione dovuti alle vittime. Eppure, il portale Equaldex ha rilevato che fino al 2018 l’omosessualità era considerata un reato punibile con una condanna fino a 3 anni di reclusione.

Lgbtq: reato?

A giugno 2018, il Comitato presidenziale per le libertà individuali e l’uguaglianza aveva presentato le sue raccomandazioni al governo tunisino per migliorare la tutela dei diritti umani nel paese. In particolare, il Comitato aveva raccomandato la depenalizzazione dell’omosessualità. La proposta suggeriva anche due possibili opzioni. O la completa depenalizzazione dell’omosessualità attraverso l’abrogazione dell’articolo 230 del codice penale tunisino. Oppure la conversione della pena da detentiva a pecuniaria, sostituendo alla reclusione il pagamento di una multa di 500 dinari tunisini. Circa 150 euro. Oltre a ciò, la Tunisia avrebbe eliminato la pratica degli esami anali forzati delle persone Lgbtq. E introdotto le prime forme di tutela di tale comunità contro qualsiasi forma di stigmatizzazione, discriminazione e violenza fisica o morale.

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Tuttavia, le numerose violazioni denunciate dai gruppi per i diritti sembrerebbero suggerire come tali conquiste valgano solo su carta. Almeno per ora. In effetti, la comunità Lgbtq risentirebbe ancora dello stigma sociale avvallato dal governo. Come ha ricordato PinkNews, nel 2013 il ministro dei diritti umani e della giustizia di transizione e portavoce del governo, Samir Dilou, aveva descritto l’omosessualità come una “perversione che richiede cure mediche“. Mentre secondo l’Immigration and Refugee Board of Canada, Dilou avrebbe rilasciato pesanti dichiarazioni alla rivista Gayday, affermando che “l’orientamento sessuale non è un diritto umano“. E che “la libertà ha i suoi limiti“. Il che sembra confermare il fatto che in Tunisia le persone Lgbtq siano ancora discriminate. E i loro diritti fondamentali violati.


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Proteste Lgbtq: le leggi

Se fossero accertati, gli abusi perpetrati delle forze dell’ordine non solo violerebbero i trattati internazionali ratificati dalla Tunisia. Ma anche le stesse norme della sua Carta fondamentale. Ad esempio, l’articolo 37 della Costituzione tunisina del 2014 garantisce il diritto di “riunione e manifestazione pacifica“. Un diritto garantito anche dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e dalla Carta araba dei diritti umani. Ma la legge introduce anche alcune garanzie di difesa. Ad esempio, consente la presenza di un avvocato durante gli interrogatori. Impone che il soggetto in stato di fermo sia informato immediatamente del motivo del loro arresto. E comunque compaia dinnanzi al pubblico ministero entro 48 ore. Ma anche garantisce la facoltà di contattare un avvocato e un familiare.

La Costituzione tunisina

Al pari delle carte fondamentali occidentali, anche la costituzione tunisina proibisce qualsiasi forma di tortura “fisica e mentale”. Inoltre, l’articolo 24 tutela il diritto alla privacy e all’inviolabilità del domicilio. Mentre l’articolo 21 sancisce il diritto a non essere discriminati: “Tutti i cittadini, maschi e femmine, hanno uguali diritti e doveri, e sono uguali davanti alla legge senza alcuna discriminazione“. Questi diritti rientrano nelle tutele previste dalla Carta africana. Ossia l’impegno a proteggere le minoranze sessuali e di genere che la Commissione africana per i diritti umani e dei cittadini richiede espressamente a tutti gli stati aderenti. Ivi compresa la Tunisia.


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Chi è Rania Amdouni?

La ventiseienne Rania Amdouni è un’artista ed esponente del gruppo Damj per la tutela dei diritti della comunità Lgbtq. Da anni è riconosciuta come attivista e militante con identità queer (la “q” della sigla) propria di chi non si identifichi in nessuna “etichetta”. In particolare, il suo lavoro è incentrato sul raggiungimento dell’uguaglianza di genere e sull’emancipazione delle donne in Tunisia. Oltre che sulla difesa delle minoranze di orientamento sessuale. A detta degli attivisti, Rania sarebbe divenuta il bersaglio delle forze dell’ordine per la sua crescente visibilità nelle manifestazioni. Infatti, i sindacati di polizia avrebbero pubblicato in più di un’occasione la sua foto sui social media, seguita da commenti poco lusinghieri. Ma anche informazioni personali, compreso l’indirizzo della sua abitazione.

Proteste Lgbtq: le minacce a Rania

Prima di essere arrestata, l’attivista Lgbtq aveva dichiarato allo HRW: “Non mi sento al sicuro nemmeno nel mio appartamento“. “La polizia è venuta a cercarmi nel mio quartiere“. “La mia vita è minacciata e la mia salute mentale si sta deteriorando. Le persone mi fissano per strada e mi molestano online“. Oltretutto, Rania aveva riferito di aver ricevuto un messaggio minaccioso in rete: “Ti troveremo alle proteste e ti terrorizzeremo“. Eppure, all’attivista non è mancato il sostegno. Lo dimostra il variopinto corteo di attivisti che ha chiesto a gran voce la sua liberazione. I loro cartelli la esortavano a “Non mollare! Non arrenderti mai!“. Oltre a ricordarle che: “La libertà è un dovere!“.

I sostenitori di Rania

All’agenzia AFP, una giovane manifestante ha dichiarato: “Rania è una di noi e la sentenza nei suoi confronti è ingiusta“. Un’altra le ha fatto eco, spiegando che i manifestanti stavano chiedendo alle autorità il rilascio di tutti i tunisini arrestati durante le proteste degli ultimi due mesi. “Un gran numero di persone è stato arrestato“. “Questo non era mai successo nemmeno durante la dittatura”, ha spiegato l’attivista riferendosi al governo di Zine El Abidine Ben Ali. L’ex presidente era stato rimosso 10 anni fa durante le rivolte della Primavera araba che dalla Tunisia avevano contagiato gli altri paesi del MENA.


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Proteste Lgbtq: attivisti come bersaglio

Come Rania, anche altri attivisti hanno subito palesi violazioni dei propri diritti. A riferirlo è lo stesso Human Right Watch. Ad esempio, l’8 febbraio scorso la polizia avrebbe arrestato un attivista queer di 23 anni. Lo avrebbe rinchiuso in un luogo segreto e gli avrebbe negato il diritto di contattare un avvocato. Un agente della sicurezza nella prigione di Mornag lo avrebbe colpito ripetutamente a pugni, minacciandolo. “Ti terremo qui per 10 anni e sarà nostro compito torturarti“. Il giovane sarebbe rimasto in custodia delle forze dell’ordine per 10 giorni in una cella sovraffollata. Nel suo caso, con l’accusa di “aggressione a un pubblico ufficiale“. Un reato punibile fino a 10 anni di reclusione. Ancora, il 17 febbraio un attivista queer intersessuale di 29 anni sarebbe stato arrestato e molestato dalla polizia durante una protesta pacifica perché avrebbe portato uno striscione recante offesa ai pubblici ufficiali.

I gruppi per i diritti

Allo Human Rights Watch, l’assistente sociale di Damj, Saif Ayadi, ha dichiarato: “La polizia sta usando canti omofobi nelle proteste contro di noi, chiamandoci froci e sodomiti che meritano di essere uccisi“. “Stanno cercando di usare la nostra identità per screditare il movimento di protesta [generale], ma noi siamo il movimento e le nostre richieste sono trasversali“. Assieme all’Osservatorio, il gruppo per la difesa dei diritti con sede a Tunisi ha inviato una lettera ai relatori speciali delle Nazioni Unite. Questo per denunciare le gravi violazioni occorse nel paese che di fatto hanno negato la libertà di riunione pacifica e di associazione. Come la libertà di espressione e il diritto alla privacy. Allo stesso tempo, la denuncia permetterà di segnalare le violazioni all’esperto indipendente delle Nazioni Unite contro la violenza e la discriminazione basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Oltre che agli Stati europei.

L’appello

Come ha ricordato Rasha Younes di HRW: “Le autorità tunisine dovrebbero indagare sulle accuse di violenza della polizia contro gli attivisti e rilasciare immediatamente e ritirare tutte le accuse contro i manifestanti basate sulla loro riunione pacifica, orientamento sessuale o identità di genere“. E ancora: “Le autorità tunisine dovrebbero prendere atto che la repressione della polizia non metterà a tacere gli attivisti che hanno il diritto di protestare pacificamente senza intimidazioni e organizzarsi senza interferenze ufficiali“. Ma soprattutto: “I funzionari delle Nazioni Unite e gli alleati della Tunisia dovrebbero fare pressioni sul governo tunisino per fermare immediatamente questi abusi e ritenere le forze di sicurezza responsabili“.

Concludendo

Quindi, gruppi come Damj esorteranno la comunità internazionale a fare pressioni sul governo tunisino affinché accerti le violazioni del diritto internazionale delle forze di sicurezza. Solo così le autorità si asterranno in futuro dall’utilizzare accuse vaghe e infondate per limitare le libertà fondamentali delle minoranze sessuali e di genere. Oltre che i diritti alla libertà di riunione, associazione ed espressione. Ciò che fa ben sperare è la considerazione che nonostante la repressione tollerata dalle stato e lo stigma sociale, le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender in Medio Oriente e Nord Africa stiano raccontando le loro storie. E continuino a farlo.


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