Il 31 luglio 1919, a Torino, nasceva uno dei più autorevoli scrittori italiani, Primo Levi. Un ragazzo come tanti altri, con la passione per la chimica, studente all’università, timido e riservato.
Questo fino al 1938, quando l’introduzione delle leggi razziali in Italia, mutò inesorabilmente il destino di molte persone. Primo Levi fu tra coloro, che da quel momento in poi, erano da considerare diversi, meno meritevoli di diritti e dignità.
La sua colpa? Essere nato in una famiglia di origine ebraica. Primo Levi non ci sta, sente il bisogno di agire. Nel 1942 prende parte al Partito d’Azione clandestino, nel 1943 diventa partigiano. Arrestato dalla polizia fascista, il 13 dicembre, si trova dinnanzi a una scelta difficile. La sua vita dipendeva da questo, niente meno che da una parola.
Così, quando gli fu chiesto se fosse un ebreo o un partigiano, a mente lucida dichiarò di essere ebreo. Sì, perché i partigiani venivano fucilati nell’immediato, gli ebrei, invece, portati nei campi di concentramento.
Fu così che, nel febbraio del ’44, Primo Levi conobbe l’orrore di Auschwitz.
Primo Levi: scrittore suo malgrado
“Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è stata imposta“.
Nel corso di un’intervista concessa ad Enzo Biagi, Primo Levi dichiara: “Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo“.
Sopravvissuto alla distruzione della vita umana, consumatasi tra i recinti di filo spinato ad Auschwitz, sceglie di non chiudersi nel silenzio. Dimenticare non è concesso, per nessuna ragione al mondo. Dimenticare è come negare, non si possono voltare le spalle ad un simile crimine contro l’umanità.
La sua è nata come una vera e propria missione. Tutti, nessuno escluso, dovevano, devono e dovranno sapere. Combattere l’indifferenza, aprire gli occhi e scuotere le coscienze è il motivo trainante della forza che Levi trova per scrivere i suoi libri.
“Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo“. Con questa ammonizione Levi rivela una dura, quanto concreta, verità. Verità di cui è necessario essere coscienti, perché il germe dell’odio non muore mai, rimane latente, è insito nell’agire umano.
Si intende, la tendenza della società, che per quanto in continua evoluzione, rimane ancorata a meccanismi arcaici, come l’individuazione del capro espiatorio.
L’odio, il disprezzo e il pregiudizio sono figli del negazionismo, dell’ignoranza consapevole e del vuoto intellettuale. Fin quando ci limiteremo ad ignorare un passato, paurosamente non così remoto, vi sarà sempre il pericolo di cadere nei medesimi errori. Errori, da cui non si può tornare indietro.
“Se questo è un uomo”… un invito alla riflessione
“Se questo è un uomo” custodisce le più tremende memorie dello scrittore. Memorie di morte, disperazione e degrado. Un testamento intellettuale che costituisce una fondamentale testimonianza di ciò che è stato e non dovrà mai più essere. Questo è il principale obbiettivo: scongiurare per sempre che l’atrocità si ripeta, sfruttando il potere della memoria.
Uno scritto realizzato per essere tramandato, di generazione in generazione.
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è svelata: siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile“.
Non si risparmia dettagli che fanno contorcere lo stomaco a chi legge, e ci fa sentire impotenti. Non ci si può mettere nei panni di chi ha visto con i propri occhi, ciò che leggiamo tra le righe del libro. Possiamo solamente riflettere, per agire nella direzione diametralmente opposta a quella che ha prodotto un simile scempio.
“C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio“.
La narrazione è in prima persona, l’autore è la voce del libro, che ci rimbomba severa nelle orecchie e ci impone di pensare.
“Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no“.
La poesia evoca immagini spaventose. La perdita graduale e totale dell’essenza stessa di essere umano, sia nei carnefici, sia nelle vittime. La progressiva perdita di umanità è descritta nei particolari, più difficili da ascoltare.
“Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno“.
Spiegare l’orrore ad una bambina di 11 anni
“Come hanno potuto essere i tedeschi così cattivi?”. Alla domanda spontanea e naturale di Monica, 11 anni, Primo Levi da risposta, cercando di far comprendere a una bambina della sua età il perché di tanta crudeltà.
Con tutta l’umanità, che non lo ha mai abbandonato, nonostante tutto, risponde così:
“Cara Monica,
la domanda che mi poni, sulla crudeltà dei tedeschi, ha dato molto filo da torcere agli storici. A mio parere, sarebbe assurdo accusare tutti i tedeschi di allora; ed è ancora più assurdo coinvolgere nell’accusa i tedeschi di oggi. È però certo che una grande maggioranza del popolo tedesco ha accettato Hitler, ha votato per lui, lo ha approvato ed applaudito, finché ha avuto successi politici e militari; eppure, molti tedeschi, direttamente o indirettamente, avevano pur dovuto sapere cosa avveniva, non solo nei Lager, ma in tutti i territori occupati, e specialmente in Europa Orientale. Perciò, piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi. La cosa più brutta vista in Lager credo sia proprio la selezione che ho descritta nel libro che conosci.
Primo Levi“.
Primo Levi muore la mattina dell’11 aprile 1987.