Nelle piazze italiane scendono i titolari delle attività penalizzate dalle misure di contenimento della pandemia. Chiedono di poter riaprire, o almeno di ricevere indennizzi adeguati. Ecco la fotografia del loro giro di affari dal punto di vista del fisco.
Chi paga le tasse in Italia
Secondo i dati del Dipartimento delle Finanze, nel 2018 il 44% dei contribuenti si colloca nella classe fino a 15.000 euro lorde annue; tra i 15 e i 50.000 si posiziona il 50%, mentre il restante 6% dei contribuenti dichiara oltre 50.000 euro.
Con riferimento alle dichiarazioni IRPEF delle persone fisiche, occorre evidenziare che l’83,8% dei circa 41,2 milioni di contribuenti IRPEF detiene prevalentemente reddito da lavoro dipendente o pensione. Solo circa il 6% dei contribuenti dichiara più di 50mila euro; coloro che non versano Irpef sono 12,6 milioni
I redditi dichiarati per categoria
I dati sugli studi di settore 2016 diffusi dal Dipartimento delle finanze restituisce il quadro dei redditi dichiarati per categoria.
Partendo dal basso, troviamo i gestori di impianti sportivi (2.600 euro lordi annui), i pescatori (4mila euro), le discoteche (4.600), le mercerie (7.400), le tintorie e lavanderie (9.200), i corniciai (9.600), gli istituti di bellezza (10mila), il commercio al dettaglio di abbigliamento calzature e pelletterie (10.300), i sarti (10.800), le profumerie (11.400).
In testa alla classifica ci sono i notai con 244mila euro, poi i farmacisti con 116mila. i commercialisti hanno dichiarato quasi 60mila, gli avvocati 49mila euro, poi un crollo verticale.
Tra i 1.000 e i 1.800 euro al mese
Le agenzie immobiliari 22.500, gli stabilimenti balneari 19.300, gioiellieri, ristoratori e tassisti tra i 17.900 e i 18.500, i commercianti al dettaglio di alimentari 17.700, i macellai 17.600, i titolari di bar, gelaterie e pasticcerie 17.400, i fruttivendoli 15.800, i fiorai 13.700, i parrucchieri 13.100.
Redditi che oscillano tra i 1.000 e i 1.800 euro al mese. Nel 2020 (dato relativo all’anno 2019, prima del COVID), il reddito medio degli imprenditori di ristoranti e alberghi, si attestava sui 13.000 euro lordi annui.
I lavoratori dipendenti dichiarano in media circa 20.700 euro, 17.800 i pensionati, tanto per fare un confronto.
I sostegni
È un fatto che gli indennizzi destinati dal governo al settore del commercio e delle partite Iva non solo non risolvano il problema, ma neppure siano in grado di alleviarlo.
I lavoratori costretti ad interrompere la loro attività a causa delle misure di contenimento della pandemia sono in oggettiva difficoltà. Ma i dati relativi alle loro dichiarazioni dei redditi sembrano delineare un settore perennemente in forte difficoltà, nel quale gli stipendi dei dipendenti sono superiori a quelli degli stessi imprenditori.
Un paradosso poco credibile data la sua diffusione. Esistono senz’altro attività – specie in questo periodo – nelle quali il titolare se la passa peggio del dipendente (magari perchè coperto dalla cassa integrazione). Ma non è credibile che il movimento di denaro di questi settori sia quello effettivamente dichiarato al fisco.
Abbiamo un problema
In questo, come in nessun altro caso, sarebbe scorretto fare di tutta l’erba un fascio: ma la tendenza che questi dati delineano corre parallela a quella del dato dell’evasione fiscale stimata dall’Agenzia delle Entrate; circa 100 miliardi di euro.
Evasione fiscale che sarebbe azzardato imputare solo alla piccola e media impresa (men che mai ai lavoratori dipendenti e ai pensionati che ricevono direttamente la cifra al netto delle ritenute), ma inevitabilmente almeno in parte.
A tale proposito, anche a causa della pandemia che stiamo vivendo, teniamo sempre presente che la sanità pubblica e i servizi sociali sono finanziati del gettito fiscale; e che l’evasione è un vero e proprio furto ai danni della collettività, non l’esercizio di un diritto non scritto. Anche se le tasse sul lavoro sono eccessive.
La legittimità della protesta
A me pare, con questi dati di contesto, che la piazza perda un po’ della sua credibilità. Mi si passi la metafora, un po’ come se uno sciopero che rivendica sacrosanti diritti fosse messo in atto da lavoratori che si sono distinti per assenteismo o scarso impegno.
Le attività penalizzate dalle restrizioni sono in evidente (e magari in parte inopportuna) sofferenza, ma forse qualcosa è mancato da parte di alcune di loro quando le cose andavano meglio, e ciò ha inevitabilmente influenzato le difficoltà del presente in termini di risorse a disposizione.
Nel nostro Paese, conti alla mano, sembrano prevalere le rimostranze per i diritti piuttosto che l’adempimento dei doveri. Tutto questo per dire che, aldilà della condizione di indigenza, il presupposto per chiedere non può essere altro che quello di dare.