Boris Jonhson tenta di forzare la mano su Brexit e chiede alla Regina di pronunciare il suo discorso il 14 ottobre. Sospesi, di fatto, i lavori parlamentari. In migliaia scendono in piazza per protestare. Le opposizioni pensano a una mozione di sfiducia verso Johson. Ecco perché la Regina ha accettato la sospensione del Parlamento
La mossa del Primo Ministro britannico, Boris Johnson, per forzare la mano sulla Brexit, rischia di portare la Gran Bretagna verso una vera e propria crisi costituzionale. Conoscere l’intricato sistema di consuetudini, che regola il funzionamento della democrazia inglese, può aiutare a far capire almeno in parte perché la Regina ha accettato la sospensione del Parlamento.
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La decisione di Boris Johnson per forzare la Brexit
Il primo ministro inglese ha deciso ieri di chiedere alla Regina Elisabetta di pronunciare il suo annuale “Queen’s speech”, con le dichiarazioni programmatiche del governo per la nuova sessione parlamentare, il 14 ottobre.
In questo modo i lavori parlamentari verrebbero sospesi fino a quella data, prorogando la pausa estiva fino a metà ottobre. Le Camere verrebbero, dunque, riaperte ad appena due settimane dalla scadenza della Brexit, il 31 ottobre.
Ne consegue, chiaramente, che gli oppositori al no deal (ovvero l’uscita senza accordo, ad oggi scenario più probabile), avranno circa una settimana per cercare di far approvare una legge che impedisca la cosiddetta “hard Brexit”.
La maggioranza del governo, attualmente, è di appena un seggio alla Camera de Comuni. Questa precarietà rendeva più che probabile l’approvazione di una legge che spostasse ulteriormente la data dell’uscita. Tale legge sarebbe stata votata verosimilmente anche dai conservatori che vogliono evitare un no deal a tutti i costi.
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Perché la Regina ha accettato la sospensione del Parlamento: questione di convenzione costituzionale
Il Regno Unito, innanzitutto, non possiede una vera e propria costituzione scritta. Non esiste, infatti, un singolo documento scritto che raccolga tutte le norme costituzionali che regolano il funzionamento della democrazia inglese.
La costituzione britannica è costituita da un insieme di statuti e decisioni giuridiche, ma anche da fonti non scritte, come le convenzioni costituzionali, che hanno uguale valore.
Le prerogative della monarchia britannica rientrano spesso in quest’ultima categoria.
Convenzione vuole che la monarchia rimanga sempre al di sopra della politica, tanto che pubblicamente per i membri della famiglia reale non è possibile esprimere alcun parere di natura politica.
Tornando alla decisione di Boris Johnson, la Regina avrebbe dunque potuto, in linea teorica, rifiutarsi di pronunciare il discorso il 14 ottobre. Per farlo, tuttavia, avrebbe dovuto violare una serie di convenzioni che hanno comunque valore costituzionale.
La costituzione materiale inglese prevede infatti che all’inizio di ogni sessione parlamentare il governo esponga il proprio programma politico con la lettura del Queen’s Speech. E’ legittimo, dunque, che sia il governo a fissare la data del discorso.
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A perdere è la democrazia parlamentare
Al di là della legittimità costituzionale o meno della decisione della sovrana, è chiaro come ad essere sotto scacco sia il modello della democrazia parlamentare.
Sospendere i lavori fino al 14 ottobre, significa, di fatto, impedire al Parlamento di esercitare la propria sovranità in un momento cruciale per il Paese, come lo è la Brexit.
Le contromosse dell’opposizione per sfiduciare Johnson e impedire la hard Brexit
L’opposizione, intanto, sta valutando se presentare una mozione di sfiducia nei confronti del governo prima che i lavori vengano sospesi per la prorogation.
I numeri per la sfiducia ci sarebbero, dato che Johnson può contare su una maggioranza di un solo parlamentare.
Il Primo Ministro, tuttavia, come rivela il Guardian, in caso di sfiducia non ha intenzione di dimettersi ed è intenzionato a fissare la data delle elezioni comunque dopo il 31 ottobre.
Nel frattempo, la petizione popolare per impedire la sospensione sfonda il milione di firme e migliaia di cittadini scendono in piazza per protestare in 10 città. Bisognerà, tuttavia, aspettare i primi di settembre per vedere come questa crisi si svilupperà da un punto di vista parlamentare.