Pietro Chiesa, portuale, uno dei primi operai a entrare in parlamento, è eletto deputato nel 1900.
Non ha risorse per pagarsi la sua permanenza nella Capitale: i suoi colleghi, organizzano collette per pagargli vitto e alloggio.
Un altro deputato socialista, Pietro Abbo, contadino, usufruisce di un permesso rilasciato dalle Ferrovie dello Stato per dormire sul treno Roma-Firenze così da poter partecipare ai lavori della Camera.
Sino al 1912, quando viene introdotta l’indennità parlamentare, solo chi è benestante può permettersi di sedere in parlamento.
L’indennità parlamentare
Le ragioni di questo istituto sono evidenti: ma oggi, a distanza di oltre cento anni, è lecito chiedersi per quale motivo una persona che dedica la propria attività alla gestione della res publica – un “servizio” e non un “lavoro” – debba ricevere emolumenti così elevati.
Parliamo di 13.971,35 euro al mese (i deputati, circa 500 euro in più i senatori), tra stipendio, diaria e rimborsi, oltre all’assegno di fine mandato e la pensione.
Sono cifre che rendono la funzione parlamentare ambita anche solo in funzione del suo ritorno economico.
Alimentando il rischio di una spirale perversa dove lobby più o meno occulte – attraverso i partiti – favoriscono l’elezione di candidati che, una volta eletti, si prestano a favorire i loro interessi a scapito di quelli della collettività.
Una ricompensa importante può rappresentare una forte motivazione per divenire un alleato fedele.
L’onore di rappresentare i cittadini
In realtà, chi è titolare di un incarico pubblico, dovrebbe essere cosciente del fatto che riceve in cambio un valore aggiunto: quello che deriva dallo svolgere un importante servizio per la comunità a cui appartiene.
Nel XVIII secolo Adam Smith ricordava che “l’onore costituisce una parte importante delle remunerazione di tutte le professioni onorevoli” ampiamente compensativa di quella economica.
Non a caso nel governo socialista della Comune di Parigi del 1871, il servizio pubblico veniva svolto dietro il compenso di un salario pari a quello degli operai.
È quello che il sociologo Michael Walzer chiama “onore della carica”, che da solo dovrebbe costituire un incentivo sufficiente a svolgerla.
Il motivo per cui Pietro Chiesa e Pietro Abbo sedevano in Parlamento, e non solo loro.
La giusta paga
Se i politici – in aspettativa dal proprio lavoro – ricevessero un compenso pari al salario percepito (o un salario minimo nel caso fossero disoccupati), non sarebbero motivati a tutelare il proprio interesse (o quello di coloro che ne hanno permesso l’elezione).
La loro unica motivazione non potrebbe essere altro che quella di svolgere il loro mandato dedicandosi alla causa comune, e non per altri fini.
Alcuni affermano tale misura allontanerebbe dalla poltica coloro che giudicano penalizzante dal punto di vista economico la scelta di abbandonare la propria professione.
A loro potremmo senz’altro rispondere che, come cittadini, non avremmo altro che da guadagnarci a non fare eleggere persone che mettono al primo posto il proprio tornaconto.
L’etica del servizio pubblico
Qualunque persona onesta, a parità di salario preferirebbe svolgere una mansione lavorativa di suo gradimento, ricavandone un senso di realizzazione e di soddisfazione maggiore.
Tutte le professioni che hanno una ricaduta sociale si basano sul valore aggiunto della dedizione personale, spesso a scapito della retribuzione o di altri benefici.
Se la funzione politica non si conforma a questa sensibilità etica, tradisce quelli che sono i suoi scopi.
È questa l’unica riforma in grado di salvaguardare il contenimento della spesa e assieme garantire la rappresentanza dei cittadini in parlamento.
Non la riduzione del numero di deputati e senatori, ma semplicemente della loro retribuzione permetterebbe di mantenere inalterata la rappresentanza a parità di costo.