Tra qualche giorno si festeggia la Pasqua ossia la resurrezione di Gesù Cristo. Un cardine della nostra fede religiosa. Ma che significato ha il concetto di resurrezione nella vita reale dell’uomo medio?
Tutte le religioni, in fondo, nascono per dare una risposta consolatoria alla madre di tutte le paure umane: la paura della morte. L’uomo ha bisogno di sentirsi dire che non morirà mai. Ogni religione inventa un paradiso, una reincarnazione, una rinascita, una vita oltre la vita. In questo senso, il Cristianesimo non fa eccezione.
Tuttavia, nel Cristianesimo la resurrezione acquista un significato particolare. Secondo la Bibbia, infatti, l’uomo non è sempre stato mortale. Adamo ed Eva nell’Eden non conoscevano fatica, dolore o morte. Solo in conseguenza del loro peccato originale, l’umanità ha scoperto queste realtà dell’esistenza.
In quest’ottica, Dio ha inviato Gesù Cristo presso di noi in qualità di agnello sacrificale che si fa carico di tutti i peccati del mondo allo scopo di lavarli via. In altre parole, la missione di Gesù è sacrificarsi per redimere l’umanità dal peccato originale e restituire ad essa la vita eterna (se non altro, dopo la morte).
Non è dunque possibile comprendere il senso della resurrezione di Gesù per noi cristiani senza capire il peccato originale.
E nota la storia del frutto del peccato. Il dettaglio che spesso è trascurato è che questo frutto nasce dall’albero della conoscenza del bene e del male.
L’uomo, quindi, non appena inizia a conoscere cosa è bene o male per lui, scopre improvvisamente cose di cui non aveva mai avuto coscienza prima: la sofferenza e la morte. L’uomo, cioè, pretendendo di essere lui a decidere cosa è bene o male, prende coscienza dell’esistenza del dolore e della morte.
Alla luce di questa interpretazione simbolica del peccato originale (la discriminazione come origine di ogni peccato, di ogni dolore e della coscienza della morte), è possibile che il peccato originale stesso in realtà non esista?
Dio, infatti, ci ha creato intelligenti e curiosi. Come i leoni hanno l’istinto di sbranare le zebre, gli uomini hanno l’istinto di conoscere. Gli uomini, anzi, devono conoscere per sopravvivere. Pensate per un momento ai cacciatori della preistoria. Per potersi procurare il cibo, devono conoscere alla perfezione la loro preda. Le abitudini e le debolezze.
Dio, quindi, ci ha fatto dono dell’intelligenza perché potessimo servircene per sopravvivere e quindi, ragionevolmente, per vivere. La voglia di conoscere non è una brama acquisita dall’uomo a seguito di una libera e consapevole scelta. Essa è piuttosto parte irrinunciabile della stessa natura umana. Quindi, come un leone non pecca quando uccide una preda, l’uomo non pecca quando conosce il mondo circostante. Ivi compreso ciò che è bene o male.
Se Dio ha creato l’umanità avida di conoscenza e curiosità, può essere questa incolpata di vivere secondo la sua natura? Ovviamente no. Quindi non esiste il peccato originale inteso come colpa. Sarebbe forse più opportuno usare il termine “consapevolezza originaria” poiché la conoscenza porta consapevolezza e questa, a volte, porta timori e sofferenze. Specie quando si diventa consapevoli che un giorno si morirà.
In altre parole, l’umanità vivendo secondo natura e quindi perseguendo la conoscenza, ha turbato la sua condizione di quiete ed innocenza originaria scoprendo la realtà ineluttabile della morte. Da allora, l’umanità ha cercato una risposta a questa paura ancestrale.
In quest’ottica, si comprende come la resurrezione di Cristo costituisce solo una risposta a questa paura. L’uomo, in cuor suo, sente che è bene per lui che ci sia una vita eterna dopo la morte e, dunque, cerca prove di ciò nella realtà e nella storia.