Paolo Borsellino era il tipo d’uomo che non amava considerarsi un eroe. Lui era un magistrato, svolgeva il suo lavoro con passione. Credeva profondamente nella giustizia, dedicando la sua vita alla lotta contro la mafia.
Svolse il suo compito, sino all’ultimo giorno, senza mai desistere né lasciarsi scoraggiare, nemmeno dalla condanna a morte che pendeva da tempo sulla sua testa.
Agli occhi di tutti i cittadini onesti, però, Paolo Borsellino era un eroe. Per i mafiosi, invece, un ingombrante ostacolo da eliminare. Molti dei suoi colleghi, al Palazzo di Giustizia, lo credevano un sognatore, o meglio un illuso, e non si fecero remore nell’abbandonarlo ad affrontare un nemico troppo potente, per il coraggio di un uomo solo.
Agli occhi della sua famiglia era un marito premuroso, un padre presente ed affettuoso. Il padre che aiuta suo figlio a ripetere la lezione il giorno prima dell’esame. Quello che dà consigli e che con grande umiltà, trasmette i suoi valori di uomo onesto e ligio al dovere. Valori che, i suoi figli hanno fatto propri, improntandovi la loro vita.
Paolo Borsellino: una vita per la lotta alla mafia
Contro la mafia: dieci citazioni di Paolo Borsellino
La Lettera di Manfredi a Paolo Borsellino
Il libro “Era d’estate” di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi contiene una lettera scritta da Manfredi Borsellino, dedicata al padre.
Nelle parole del figlio è contenuta l’essenza di Paolo Borsellino. È commovente e forte, descrive un uomo con le sue idee e le sue paure. Un uomo che sapeva di andare in contro ad un destino crudele, ma che ha votato la sua vita ad una giusta causa, difesa sino alla fine.
Ripercorre, come in un racconto, le ultime ore di vita del padre, permettendoci di conoscere il suo stato d’animo. Il pathos che evoca è dirompente, mette in luce la precarietà della vita e della spensieratezza, fa vacillare il limite tra giustizia e ingiustizia.
“Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone. Non potrò mai dimenticare che […] in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua“.
Un’affermazione dura, che esprime la consapevolezza, ormai fatta propria da tutta la famiglia che, presto o tardi, la mafia li avrebbe privati della sua presenza. Si evince la straordinaria forza che Paolo Borsellino trasmise ai suoi figli. Nonostante il terrore di questa evenienza, lo hanno infatti, sempre, sostenuto. Fieri di portare il suo cognome, non per vanto ma per profondo rispetto e stima.
“Abbiamo percorso le nostre strade senza farci largo con il nostro cognome, divenuto pesante in tutti i sensi, […], non ci siamo montati la testa, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui“.
Il distacco, le ultime mosse di Paolo Borsellino
“Dopo la strage di Capaci […], in mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni“.
I giorni intercorsi tra la strage di Capaci (23 maggio 1992) e quella di Via D’Amelio pesano come un macigno. Vissuti da un uomo combattuto tra l’amore per la sua famiglia e quello per il suo lavoro. Tra le preoccupazioni che attanagliavano Borsellino vi era la necessità di abituare la sua famiglia all’idea che sarebbe morto. Come fa un padre a spiegare ai propri figli, che prima o poi avrebbero dovuto piangerlo al cimitero?
Doveva insegnargli a non avere più bisogno di lui ed assicurarsi che fossero abbastanza forti da sopportare la perdita. “Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo preparati qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni“.
Ultimi momenti di felicità per Paolo Borsellino e la sua famiglia
Quella Domenica mattina, il giorno dell’attentato, il giudice e la famiglia si radunarono per un pranzo insieme ad amici, a Villagrazia di Carini. La figlia Lucia era intenta a ripassare per un esame previsto il giorno successivo, che diede nonostante tutto. Fiammetta, invece, era in Thailandia con amici di famiglia.
“Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel suo mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare“.
Evoca il ricordo di una tipica domenica, trascorsa all’insegna della leggerezza. Nessuno poteva immaginare che quelle sarebbero state le ultime ore prima della tragedia.
“Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi“.
Questa lettera, specialmente in alcuni passaggi è molto toccante. Fa rivivere un Paolo Borsellino nel tentativo di regalare un po’ di normalità e di serenità alla famiglia, a discapito del fardello che portava dentro.
Inoltre, è palpabile il sottile confine che separa la vita dalla morte e si avverte quanto l’una influenzi l’altra, nell’immediato.
“Mia madre lo salutò sull’uscio della villa […], io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo […]. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che da lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii“.
La strage di via D’Amelio
Quel 19 luglio, però non andò così. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Trana vennero brutalmente uccisi.
In via D’Amelio, sotto l’abitazione dell’anziana madre, tra le tante auto parcheggiate si trovava una Fiat 126. Era carica di tritolo, esplose al passaggio del giudice e dei suoi uomini, lasciandosi dietro una scia di morte, fumo e rassegnazione.
“Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio“.
Un’efferatezza che non ha bisogno di essere commentata. La ferocia, la violenza e l’ingiustizia parlano da sé. La realtà che si definì subito dopo aveva tutto il sapore della sconfitta: la mafia, a poco a poco, stava stroncando le vite di tutti coloro che si battevano per la legalità e per la liberazione della Sicilia dal cancro mafioso.
“Mia sorella Lucia […] ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine ha intravisto il suo solito ghigno, il sorriso di sempre“.
I funerali
Alle lacrime di dolore seguì la rabbia della gente. Ai funerali, a cui partecipò uno stuolo di migliaia di persone, si verificò un episodio significativo a dir poco.
All’arrivo dei rappresentanti delle istituzioni, tra cui il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Francesco Cossiga la ferocia della folla prese il sopravvento. Al grido di “fuori la mafia dallo Stato” la gente sfondò le barriere protettive degli agenti di sicurezza, ed il presidente della Repubblica fu tratto rapidamente in salvo dal linciaggio.
L’insegnamento di Paolo Borsellino lo rende immortale
Paolo Borsellino continua a vivere nel ricordo di chi lo ama e nelle azioni di coloro che, dopo la sua morte, sposano la sua causa. La grande lezione trasmessa sopravvive alla sua morte grazie al concreto esempio dei suoi figli.
“Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che ci trasformassimo in familiari superstiti di una vittima della mafia […]. Desiderava che proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita e gli dessimo quei nipoti che tanto desiderava“.
Nella lettera Manfredi Borsellino fa commuovere quando afferma “non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio“.
Così, conosciamo nel profondo, l’insegnamento di quest’uomo la cui dignità ed umiltà, insieme al grande coraggio, lo rendono immortale.
“Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere“.