Travolti dalla macabra contabilità serale dei TG, dal susseguirsi in crescendo dei provvedimenti di governo e regioni, dai pareri contrastanti di mille esperti e pseudo tali, è difficile, per non dire impossibile, che i nostri pensieri non siano assorbiti dal tema della pandemia.
Guardare la nostra vita aldilà della crisi
La preoccupazione, in una situazione come questa, è senz’altro legittima, ma non deve farci perdere al capacità di guardare la nostra vita aldilà della crisi, sforzandoci di non perderci nei dettagli o farci travolgere da sterili discussioni.
La razza umana deve quasi certamente la sua sopravvivenza grazie ad una capacità che ha imparato a sviluppare e gestire: la resilienza. Annamaria Testa, a proposito di questo, scrive che l’ unica strategia è quella di abbandonare l’idea che tutto possa tornare come prima, e di conseguenza provare a pianificare sulla base non di un possibile futuro modellato sul passato, ma di molti possibili alternativi, anche inediti.
https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2020/10/21/oceano-incertezza
Ma non è così semplice; anche perché il confronto con il passato pre-Covid continua a condizionare la visione strategica della politica, ma anche le discussioni sui media e sui social.
Il mito della normalità perduta
Come all’inizio della prima ondata di pandemia, riprendono forza i paragoni tra quello che stiamo vivendo adesso e la “normalità perduta” – anche attraverso inferenze statistiche.
A questo proposito, tra gli altri, è apparso in questi giorni su un noto quotidiano un articolo che compara le probabilità di ammalarsi e morire a quelle degli incidenti d’auto. Il sottotitolo è esplicito:”la probabilità di ammalarsi è diminuita, quella dimorire è però il triplo rispetto a quella degli incidenti stradali”
Questa conclusione deriva da semplici calcoli matematici che si basano sulla frequenza degli incidenti stradali (dati 2019) e dei loro esiti gravi e mortali divisa per il numero di veicoli in circolazione. Le conclusioni sono che nel corso dell’anno ogni italiano ha una probabilità di ferirsi in un incidente stradale dello 0,41% e quella di morire per i postumi dell’1,30%.
Incidenti & contagi
Il parallelo assimila l’incidente al contagio di coronavirus e – per semplificare la stima – presuppone una media del dato nazionale uniforme su tutto il territorio. Secondo i dati a nostra disposizione, le percentuali di ammalarsi in modo sintomatico e di morire sono state dell’1,55% e del 14,6% nel corso della prima ondata di pandemia, e dello 0,25% e 4% nella seconda ondata (ad oggi).
Quindi, calcolatrice alla mano, ai giorni nostri il rischio di morte da contagio è circa tre volte più alto di quello di un incidente stradale.
Peccato che l’analisi (l’ennesima) sulla pandemia, appiattisca incidenti e contagi su un’unica variabile (la nostra esistenza in quanto parte del campione della popolazione), mentre in realtà il frutto di diversi fattori. Basta un esempio banale per capirlo.
La complessità dei fenomeni
Mia nonna, che ha compiuto la bellezza di 94 anni, pur godendo di ottima salute da tempo non si muove di casa: le sue possibilità di essere coinvolta in un incidente stradale sono pertanto pari a zero; viceversa, la fragilità che deriva dalla sua età, la rende inevitabilmente un soggetto particolarmente vulnerabile agli effetti del virus.
Cosa significa? Che questi numeri – e soprattutto la comparazione tra incidenti e contagi non ha nessun senso. Altre variabili, come detto, producono questi fenomeni: l’utilizzo o meno dell’auto, i chilometri percorsi, la velocità, stile di guida, le condizioni psicofisiche dell’autista; oltre ad una quota imponderabile di imprevedibilità che rende tali molte delle vittime dell’imprudenza altrui.
Anche il contagio – e ancor di più l’esito della malattia – dipende da diversi fattori: l’esposizione al virus, l’utilizzo di precauzioni, le condizioni pregresse di salute, eccetera.
Rispetto alle medie piatte enunciate, alcuni hanno maggiori probabilità di restare coinvolti in un incidente (ad esempio un autista di professione), altri di contrarre il virus (persone fragili, oppure personale sanitario).
E – contrariamente al messaggio che l’analisi implicitamente (e senz’altro involontariamente) restituisce – possiamo fare qualcosa per ridurre sensibilmente questi rischi. Il traguardo del contagio zero si basa proprio su questo.
Perdersi nei dettagli
Sforzandosi di rapportare questo stato di emergenza alla (presunta) normalità del pre-covid rischiamo di dimenticare la straordinaria occasione che nostro malgrado abbiamo per ripensare quello che non andava, anziché rimpiangerlo in modo superficiale. Compreso l’accettare il dato della mortalità per incidenti.
Socialità, organizzazione del lavoro, scuola, trasporti: l’emergenza ha solo evidenziato fragilità esistenti da cui dovremmo ripartire per organizzare la società una volta finita la pandemia. Diversamente, nostra fragilità rimarrà la stessa, e ci esporrà nel futuro alle medesime difficoltà (per molti vere e proprie sofferenze).
È sbagliato pensare che il cammino dell’uomo proceda in un mondo sicuro: la vita, come ha ricordato recentemente in una intervista il filosofo Edgar Morin
“è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze”. Abbandoniamo dunque ogni presunzione di sicurezza e accettiamo l’incerto procedendo a piccoli passi: chissà che il mondo, così come non lo immaginiamo, non sia migliore di questo.