Ninni Cassarà viene ucciso dalla mafia, 6 agosto 1985

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nino cassarà

Ninni Cassarà, vice capo della squadra mobile di Palermo, muore sotto i colpi di kalashnikov esplosi da nove killer di Cosa Nostra, il 6 agosto del 1985.

Perse la vita davanti agli occhi della moglie Laura e della figlia più piccola Elvira, di soli due anni. Quel giorno, Cassarà rientrava a casa per la pausa pranzo, scortato da tre uomini (Roberto Antiochia, Natale Mondo e Giovanni Lercara), a bordo di un’Alfetta blindata. La moglie, lo attendeva sul balcone, come era solita fare.

Purtroppo però, quel giorno di trentacinque anni fa, un altro coraggioso servitore dello Stato perì per mano della mafia. Non ebbe scampo, quando il commando di uomini gli tese un agguato proprio sotto casa. Improvvisamente, balzando allo scoperto dallo stabile di fronte, iniziarono a sparare.

Si stimò che esplosero oltre duecento colpi. Uno, solamente un proiettile, gli fu fatale recidendo l’aorta.

La moglie Laura, accorsa giù per le scale per soccorrere il marito, non poté che constatarne la morte. In un lago di sangue giaceva inerme il corpo di un uomo, che sino all’ultimo momento, ha combattuto in prima linea per estirpare il male dalla sua terra. Oltre alla moglie, lasciava tre figli piccoli: Gaspare, 10 anni, Marida, 8 anni e Elvira, 2 anni.

Le parole della moglie Laura Cassarà

Io non capii che sparavano, pensai a una bomba, mi affacciai per vedere se la macchina saltava in aria“. Racconta così, Laura Iacovoni Cassarà, il giorno in cui uccisero suo marito.

Guardo giù e vedo Ninni che comincia a correre verso l’atrio del palazzo, e poi sento Mondo gridare Signora vada dentro!“.

Corre disperata verso il marito e quando lo raggiunge, “Ero convinta di trovarlo vivo, l’avevo visto fare i primi quattro gradini con un solo balzo. Pensavo che ce l’avrebbe fatta, e in effetti c’è mancato poco“.

L’essere disposti a dare la propria vita in nome di un ideale di giustizia, rende queste vittime di mafia dei veri eroi, per quanto loro non amassero essere considerati tali. Agivano senza essere ricoperti di onori né di riconoscimenti, anzi.

Quasi nell’ombra, all’insaputa dei più, ogni giorno scendevano in campo a combattere un nemico troppo potente. Una guerra impari, nella quale non hanno ricevuto il dovuto supporto.

Purtroppo per noi quella situazione era il pane quotidiano. Noi sapevamo già tutto, ma quelli che ascoltavano no, e la cosa grave è che quando hanno saputo non hanno fatto niente per cambiare la situazione, lasciando soli e senza mezzi quei pochi che combattevano la guerra sulla trincea. Ninni è morto per questo“.

Chi era Antonino Cassarà, chiamato da tutti Ninni?

Un giorno Ninni Cassarà disse “convinciamoci che siamo cadaveri che camminano“. Profondamente consapevole di essere tra i bersagli più esposti all’ira di Cosa Nostra, in seguito all’omicidio di Rocco Chinnici e del commissario Giuseppe Montana. Fa riflettere l’onestà e la determinazione che animò questi uomini di giustizia. Il puro senso del dovere, la voglia di lottare per rendere la terra in cui vivevano un posto migliore, per i propri figli, nipoti.

Nacque a Palermo, nel 1947, aveva solo 38 anni quando morì. Arrivò a Palermo nel 1981, a ricoprire la carica di vicedirigente della squadra mobile e divenne stretto collaboratore del pool antimafia. Attento e meticoloso, in prima linea per contrastare la criminalità organizzata.

Noi siamo arrivati a Palermo da Trapani nel 1981, nel pieno di questa guerra di cui nessuno, tra chi di dovere, si degnava di occuparsi. A ogni delitto seguivano le parole di sdegno, funerali solenni e grandi promesse, ma poi tutti ripartivano e qui si continuava con il solito tran tran: pochi e disarmati che finiscono additati come il vero e unico pericolo per la mafia“. Con queste parole, Laura Cassarà denuncia il clima di indifferenza diffusa, nel quale il marito e pochi altri uomini di giustizia si sono trovati a lavorare.

Ebbe un ruolo chiave nelle indagini che condussero alla scoperta di importante rivelazioni circa il fenomeno mafioso in Sicilia. Lavorò al fianco di Rocco Chinnici, Falcone e Borsellino ed è a lui che si deve il famoso “Rapporto dei 162“. Si tratta di un fondamentale documento, contenente l’organigramma di Cosa Nostra. Fondamentale prova concreta, per istituire il Maxiprocesso.

Abbandonati a se stessi, non si sono mai arresi

La Squadra mobile di Palermo, quell’estate del 1985 era proprio impegnata in questo arduo compito. La mafia, naturalmente, agì di conseguenza. Il 28 luglio di quello stesso anno, morì in un attentato Montana, con cui Cassarà collaborava a stretto contatto e con il quale aveva un rapporto di profonda stima ed amicizia.

Viveva e lavorava in un isolamento tangibile segnalato, ignorato. Se vieni additato come colui che porta avanti le indagini con più convinzione degli altri, diventi il nemico numero uno e ti fanno fuori“.

Lo stesso Borsellino, circa un anno prima dell’uccisione di Cassarà, aveva già denunciato all’Antimafia questa condizione sfavorevole, in cui lui ed i suoi colleghi versavano. Tuttavia, le lamentele e le segnalazioni caddero nel vuoto, conducendo al risultato che, purtroppo, tutti conosciamo.

Cassarà era una delle personalità che maggiormente costituivano un pericolo per gli affari illeciti mafiosi. Era uno di quei poliziotti che, come prima di lui Boris Giuliano, si fidava dei “pochi ma buoni” collaboratori. Uomini che non avevano paura di girare per le vie di Palermo, a caccia dei latitanti e dei covi in cui la mafia nascondeva la droga. Poliziotti che vestivano con onore la propria divisa. Pattugliavano quelle strade in cui, quotidianamente (“Palermo come Beirut”) scorreva il sangue di agenti di polizia, magistrati, civili innocenti.

Roberto Antiochia, l’immenso coraggio di un ragazzo di vent’anni

Quel triste giorno del 1985, insieme a Cassarà perse la vita anche il giovane agente Roberto Antiochia, 23 anni.

Non doveva nemmeno trovarsi lì, quel giorno. Era in congedo per ferie, ma decise di tornare a Palermo in seguito all’uccisione di Montana.

Si era offerto volontario per scortare Cassarà, pienamente conscio del rischio che correva.

Quando gli assassini aprirono il fuoco non ebbe remore a parare, con il suo stesso corpo, i colpi destinati a Ninni Cassarà.

Come è potuto accadere che un uomo a rischio, come Ninni Cassarà, sia stato protetto da un giovane ragazzo, ventenne, e non dalle Istituzioni, che ha sempre servito con lealtà? È un quesito a cui, ad oggi, non si trova risposta.

Dopo la morte…

Meglio tenerlo a casa sua, con le persone che gli hanno voluto bene. Ho pensato che Ninni avrebbe fatto così“.

In seguito alla morte, queste le parole della vedova di Cassarà (34 anni), cariche di amarezza e sdegno, pienamente comprensibili e condivisibili.

Non volle nella maniera più assoluta allestire la camera ardente in questura, tanto meno i funerali di Stato. L’ipocrisia non era per loro, Ninni e Laura Cassarà vi hanno sempre anteposto l’onore, quello vero, e la giustizia, intesa nel più alto senso del termine.