Myanmar. La San Suu Ki nega le violenze contro i rohingya e Amnesty chiede di tenere alta l’attenzione

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Una delle principali organizzazioni non governative del mondo per la tutela dei diritti umani, Amnesty International, ha annunciato qualche giorno fa di voler continuare a tenere alta l’attenzione sulla situazione dei diritti negati verso la minoranza musulmana rohingya nella regione di Rakhine dopo che la consigliera e capo di stato di fatto di Myanmar (nazione conosciuta in italiano come Birmania) Aung San Suu Ki ha negato alla Corte internazionale di giustizia le violenze e i crimini contro questa comunità da parte del governo.

Lo scorso 11 novembre il Gambia aveva presentato denuncia contro il Myanmar chiedendo alla Corte, in attesa di una sua pronuncia, di adottare “misure provvisorie per proteggere i diritti del gruppo rohingya e impedire ogni azione che possa equivalere o contribuire al reato di genocidio”.

Amnesty Internationl ha comunicato di aver individuato 13 alti ufficiali dell’esercito birmano, compreso il comandante in capo Min Aung Hlaing, sui quali si dovrebbero aprire nel breve periodo procedimenti giudiziari per i crimini commessi contro la minoranza musulmana.

La stessa Amnesty International negli anni passati si era battuta per la scarcerazione della San Suu Kyi durante la repressione da parte dei precedenti governi del Myanmar, conferendogli nel 2009 l’onoreficienza “Ambasciatore della conoscenza“, titolo poi revocato dalla stessa ONG nel 2018 dopo la totale assenza di azione contro le violenze verso la comunità rohingya.

Nelle scorse sono state anche rese pubbliche le dichiarazione di Nicolas Bequelin, direttore generale per l’Asia di Amnesty International, che ha così commentato la posizione ufficiale del governo birmano:

“Aung San Suu Kyi ha cercato di minimizzare la gravità dei crimini commessi ai danni della popolazione rohingya. Non li ha neanche menzionati, nè ha riconosciuto la dimensione di quei crimini. Questo tentativo di negare è deliberato, ingannevole e pericoloso. L’esodo di oltre 700.000 rohingya che vivevano in Myanmar non è stato altro che l’effetto di una campagna orchestrata di uccisioni, stupri e terrore. Dire che i soldati non distinguevano chiaramente tra combattenti armati e popolazione civile sfida ogni logica. Così come è pura fantasia la tesi secondo la quale le autorità di Myanmar sono in grado di svolgere indagini immediate e indipendenti e sottoporre a processo i presunti autori di crimini di diritto internazionale, soprattutto per quanto riguarda gli alti ufficiali delle forze armate che godono da decenni di una totale impunità.

Mentre oggi l’attenzione si concentra su Aung San Suu Kyi, ricordiamoci che in gioco c’è la giustizia per la comunità rohingya, comprese le 600.000 persone che si trovano ancora in Myanmar, a rischio di subire ulteriori crimini e urgentemente bisognose di protezione. In gioco c’è anche la sorte delle centinaia di migliaia di rifugiati che non possono tornare nel loro paese. Nonostante quanto abbia detto oggi Aung San Suu Kyi, Myanmar non è affatto un luogo sicuro.

La Corte internazionale di giustizia e la comunità internazionale devono agire sollecitamente per proteggere i rohingya e impedire ulteriori atrocità, ad esempio ordinando al governo di Myanmar di abolire le limitazioni discriminatorie nei loro confronti, assicurare l’accesso agli aiuti umanitari e cooperare pienamente a ogni indagine internazionale.”