Il 30 ottobre 1974 George Foreman sale sul ring di Kinshasa con il ruolo di favorito, con 40 vittorie su 40 incontri, di cui 37 per KO prima del limite; a farne le spese gente del calibro di George Chuvalo, Joe Frazier, Ken Norton – i pugili più forti della loro generazione. E’ il campione in carica, ma il pubblico è contro di lui, che quella notte interpreta suo malgrado la parte del cattivo, il “nero” che ha messo la sua forza al servizio dell’establishment bianco; l’uomo che deve tappare la bocca una volta per sempre ad Alì, il ribelle. La leggenda.
Alì era uscito tre anni prima di prigione, condannato da una giuria di bianchi per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Vietnam. Aveva perso il titolo, la licenza di pugile e la credibilità dell’ambiente, che non credeva ad una sua vittoria, nonostante i risultati ottenuti dopo il suo rientro. Dalla sua parte stava però la gente, per la quale impersonava l’orgoglio delle minoranze oppresse di tutto il mondo. Alì era il simbolo delle battaglie per i diritti civili, e l’Africa la sua terra. Foreman si allena al chiuso protetto dal suo staff, Alì tra la gente.
Alle 4.00 del mattino ora locale (così da massimizzare i diritti televisivi per la diretta negli USA), davanti al dittatore Mobuto e 100.000 spettatori entusiasti a bordo ring, tutti per lo sfidante, Foreman comincia a picchiare inesorabile Alì chiudendolo alle corde. E’ un massacro.
Per otto riprese Foreman colpisce e Alì incassa. Dal primo minuto la sensazione è che lo sfidante cadrà a tappeto, ma col passare del tempo la gente comincia a credere che Alì, che ha subìto un numero impressionante di colpi praticamente mai attaccare, sia invincibile. Anche Foreman, esausto, a poco a poco comincia a perdere convinzione di fronte a quell’avversario che non cade sotto i suoi colpi. Forse Alì è davvero invincibile, ma non è certo invulnerabile; forse Alì ha anche paura, ma ancor di più coraggio. Alì sa soffrire, la sua forza ha un costo: provate farvi picchiare da un Foreman all’apice della sua carriera solo per dimostrargli che la sua forza non può niente contro di voi. Rispondete ad ogni colpo con un sorriso: picchia più forte, così non ce la farai mai a buttarmi giù.
E’ l’unica strada possibile per vincere: Foreman gli è superiore per potenza, e Alì, come in una partita di scacchi, sceglie di sacrificare i suoi pezzi migliori: non può stancarlo attaccando e lo lascia sfogare. Offre se stesso alla sua violenza, scommettendo su chi, al momento decisivo, sarà più provato tra i due. Alì è certo che sarà l’altro, e resiste ai colpi. Foreman è sempre più stanco, ma non molla. Percepisce il pericolo, ma non sa da che parte arriverà. Continua a picchiare; Alì è sempre stretto alle corde.
All’improvviso, dopo 25 lunghissimi minuti, senza nessun preavviso, il miracolo che tutti attendono, ma nessuno si aspetta, soprattutto come. Alì si stacca dalle corde con leggerezza, come se fosse la prima ripresa, si divincola con un’eleganza che è impossibile descrivere, e colpisce. Colpisce con la leggerezza della farfalla ma la forza e la velocità di un treno in corsa: sinistro, sinistro, destro – Foreman è un pupazzo di pezza, barcolla, compone un mezzo giro su se stesso, crolla a terra; dopo otto riprese che ai punti lo avrebbero visto vincere con un vantaggio imbarazzante. Prova a rialzarsi, ma non può; lo contano, è out.
Alì alza semplicemente le braccia. Anche lui deve per forza essere esausto, ma non ne ha l’aria, e non ha nemmeno un segno sul viso. Sorride come chi non è mai stato sfiorato da un dubbio.
In quei quattro secondi – da quando esce dalle corde che non ha mai abbandonato dall’inizio dell’incontro, a quando Foreman crolla a terra – c’è tutta l’eccezionalità dell’uomo, e il pugilato è solo un pretesto.
La forza della mente e del corpo che ne è lo strumento.