Della polemica che in questi giorni investe – postuma – la figura di Montanelli, la cui statua a Milano è stata imbrattata di vernice, la cosa che più mi colpisce esula dal merito della questione.
Una storia nota da cinquant’anni
Il punto di partenza è la riscoperta degli abusi sessuali perpetrati sulle giovanissime donne eritree nel corso dell’occupazione fascista degli anni ’30, di cui lo stesso Montanelli aveva parlato in diverse interviste, cinquanta anni fa, raccontando di aver sposato – com’era nel costume dell’epoca – una bambina di dodici anni, che fu sua compagna durante la permanenza in Africa.
Ma cosa che più mi colpisce di questa storia – aldilà dell’evidente barbarie – è strettamente collegata ai motivi per i quali oggi è riemersa all’attenzione pubblica, quattordici anni dopo che, senza clamori, è stata inaugurata la statua al noto giornalista toscano a Milano. La risposta è semplice, e riporta l’attenzione su due temi cruciali che molto ci dicono della società nella quale viviamo (ciò che mi colpisce, appunto).
L’impatto di social e media
Il primo è quello dell’impatto dei media nel catalizzare il dibattito pubblico. La morte di George Floyd a Minneapolis – l’ennesima di un afroamericano per mano della polizia – ha acceso proteste che si sono diffuse in tutto il mondo, anche se non è certo il primo caso, né si discosta in modo significativo da altri (penso George Stinney Jr, giustiziato a 14 anni per un omicidio mai commesso e solo recentemente riabilitato senza troppi clamori )
Non sfugga che alla base di questo movimento di opinione ci sia un video girato da un cittadino e veicolato attraverso i social: da un lato l’importanza delle testimonianze dirette (pensiamo alle prime dichiarazioni ufficiali sugli scontri avvenuti al G8 di Genova del 2001), dall’altro l’effetto moltiplicatore della loro condivisione sul web. Talmente significativo da rendere a volte persino irrilevante la fondatezza della notizia (in questo caso ha permesso invece di fare luce sulla morte di Floyd).
Il bisogno di appartenenza
L’altra questione è quella della sempre più evidente necessità di esprimere il proprio bisogno di appartenenza ad una causa comune, pulsione che, similmente alla dinamica che si instaura tra notizia e media, va oltre la causa stessa. È il motivo per cui le ideologie hanno così presa sulle persone.
Penso a Tiziano Terzani quando dice (ne La fine è il mio inizio) che il fondamentalismo islamico ha preso il posto del marxismo nell’immaginario delle popolazioni sfruttate dell’estremo oriente. Il punto è sentirsi parte di un tutto ed avere un obiettivo comune, non in nome di che cosa.
Il razzismo è una questione seria, e lo è anche la sua opposizione in ogni forma. Spero che alla base di questa sollevazione ci sia una ritrovata sensibilità, anche delle generazioni più giovani, e non solo l’espressione di un mainstream dal corto respirosostenuto da social e media. La sua spettacolarizzazione (come con Greta Thunberg), i suoi slogan, qualche timore me lo inducono.
Montanelli non ha mai fatto mistero di sé
Quanto a Montanelli, e alla sua condanna postuma, mi viene solo da dire che non abbiamo scoperto nulla di nuovo. È stato l’esponente di una cultura di destra marcatamente conservatrice (come noto, fu lui a scrivere agli elettori di “turarsi il naso e votare DC” nel 1976), libertaria ma di stampo paternalistico, ma soprattutto distante dagli ideali di uguaglianza sociale che, da Proudhon sino a Marx, costituiscono l’ossatura del pensiero di Sinistra.
Giornalista dalla penna buona e di carattere fortemente volitivo, aveva saputo – con merito – ritagliarsi un posto al sole nella professione e nella società italiana, mi pare però senza aprirsi ad una visione meno che pragmatica dell’uomo e del suo ruolo nella società.
Il suo racconto della triste vicenda della sposa bambina a me pare – guardando l’intervista – che per lui fosse solo questo: un racconto, uguale ad uno delle migliaia di articoli da lui scritti, come super partes. Non certo una confessione o una ammissione di colpa.
Insomma: Montanelli era questo, e non ne ha mai fatto mistero. Se l’omaggio è al contributo che ha dato come giornalista, credo che possa anche essere quanto meno oggetto di valutazione; se è all’uomo, la questione è diversa.
Ma in fondo, assieme a tanti nomi illustri (come esponenti e vittime della Resistenza) giustificati dalle loro azioni, la nostra toponomastica è piena di artisti ricordati per le loro opere e nient’altro. “Il” Montanelli giornalista può fare loro senz’altro compagnia senza suscitare scalpore.
E a proposito delle squallide vicende eritree da lui stesso raccontate l’unico commento che mi pare appropriato, è che tutto il fascismo è stato squallido, e non solo in quella occasione. Gli abusi sulla popolazione, in particolare sulle donne, si inseriscono perfettamente nel solco della vuota retorica mussoliniana, della politica coloniale, dell’uso dei gas chimici, del pugno di ferro contro la popolazione locale e gli oppositori politici.
Nessun simbolo
Infine, per provare a chiudere la questione, credo possa bastare un semplice esempio. Mentre Montanelli adattava (pare senza particolari conflitti di coscienza) le sue abitudini agli usi e ai costumi dei conquistatori, Pertini (ad esempio) già da una decina d’anni viveva tra il carcere ed il confino a causa della sua opposizione al fascismo. Per dire che, quando si impronta la propria vita a dei valori, diventa più difficile che si presenti l’occasione di sbagliare.
Dopo di che, non mi pare che Montanelli abbia avuto in vita le qualità per divenire un simbolo per i posteri, né positivo, e neppure negativo. Potremo semplicemente ricordare i suoi pezzi sui giornali (ed anche imparare qualcosa) e dimenticare il resto. Forse su questo, anche lui sarebbe d’accordo.