Non siamo il popolo di Dante, Leonardo, Michelangelo, Ungaretti, Manzoni, Pirandello (la lista potrebbe continuare) ma quello dei personaggi di Alberto Sordi, dei gol di Paolo Rossi contro il Brasile, delle canzoni della Carrà, dei quiz di Mike Bongiorno. Con quanto ne consegue.
La cultura di massa
Al solito, tra i primi a mettere i puntini sulle “i” in Italia fu Umberto Eco con i suoi studi pionieristici sulla letteratura cosiddetta “popolare”, sui fumetti, sulla pubblicità e infine sulla televisione.
Siamo a ridosso dei primi anni del boom economico, i primi ‘60 del secolo scorso. Attenzione – ammoniva – tutto questo ha un ruolo solo apparentemente marginale nella cultura italiana che si sta formando assieme ai nuovi stili di vita.
(per chi vuole approfondire la querelle tra cultura “alta” e cultura di massa può fare riferimento al breve ma intenso testo di Dwight McDonald
http://xroads.virginia.edu/~DRBR/macdonald.pdf
La TV, poi la Rete
Probabilmente il nome di William Harrington non è così noto al grande pubblico, e neppure quello di Donald Bain. Eppure milioni di persone conoscono i personaggi da loro creati (e i loro interpreti): Peter Falk nei panni de Il tenente Colombo e Angela Lansbury alias Jessica Fletcher, La signora in giallo.
Non è necessario fare chissà quali indagini per verificare su un campione rappresentativo della popolazione la popolarità di uno scrittore – anche importante – o quella di un personaggio televisivo.
E non è un caso se il successo di alcuni scrittori sia dovuto in larga misura alla riduzione televisiva delle loro opere.
Con Internet non si butta via niente
La capacità della Rete – in particolare in relazione alla musica – di rendere immediatamente accessibile e fruibile un numero praticamente infinito di opere, ha determinato non solo una loro diffusione senza precedenti, ma anche una latenza nella memoria collettiva.
Il gap generazionale che aveva diviso negli anni precedenti i gusti musicali si è ridotto sino a zero. Il pubblico è divenuto via via sempre più eterogeneo, ai concerti come nell’ascolto; cantanti e gruppi che sarebbero scivolati nell’oblio hanno trovato nuove, proficue occasioni di visibilità.
Revival
Il revival è divenuto così da genere di nicchia, citazione. Bob Sinclair mixa una versione dance di A far l’amore comincia tu e la canzone-tormentone di Raffaella Carrà diviene familiare anche alle nuove generazioni.
Proprio la popolarità che viene dalla Rete induce i produttori a riproporre con successo personaggi del passato, come la stessa Carrà, nei nuovi format dei talent show.
La memoria collettiva attinge alle nuove tecnologie un collante in grado di renderla ancora più coesa. Non stupisca, pertanto, l’estesa partecipazione al cordoglio per la scomparsa di personaggi pubblici.
Il lutto collettivo
Il lutto è l’elaborazione psicologica della perdita, un percorso che induce ad un necessario cambiamento per sopperire all’assenza di chi non c’è più e quindi alla riorganizzazione della vita.
In questo senso non esiste un “lutto collettivo”, ma solo individuale.
Esistono però vari livelli di partecipazione emotiva condivisi che dipendono dal grado di “vicinanza” fisica o psicologica con le persone scomparse, come essere concittadini o connazionali, oppure possedere caratteristiche nelle quali ci ritroviamo, come l’età, o una determinata passione condivisa.
E naturalmente la consuetudine con la quale ci rapportiamo con determinati personaggi pubblici che, aldilà dell’assenza di un contatto fisico, costituiscono una presenza significativa nelle vite di milioni di persone.
Testimonianza di umanità
Il lutto collettivo testimonia senz’altro un tratto di umanità, la capacità di empatizzare anche con chi non appartiene alla nostra cerchia affettiva, nel nome di una comune appartenenza al genere umano.
Può essere suscitato da un evento episodico, ma anche da circostanze particolari: pensiamo ad esempio alla tragedia della Shoah, e all’importanza di una riflessione a livello mondiale sugli orrori che l’uomo è in grado di perpetrare, o a coloro che sono caduti per restituirci la libertà di cui oggi possiamo godere.
Ciò che è accaduto ha un peso nelle nostre vite: la distinzione tra lutto collettivo e individuale tende a sfumare.
Il lato oscuro del lutto collettivo
Ma esiste anche un lato oscuro in questa partecipazione di massa.
L’induzione dei social network ad esibire in pubblico le emozioni determina un giudizio morale negativo su chi si ritrae dal cordoglio collettivo, alimentando in certi casi una partecipazione che non sarebbe stata.
Inoltre, il modo con il quale vengono date alcune notizie inducono il sospetto che il lutto collettivo rischi, anche involontariamente, di diventare un pericoloso strumento per promuovere una specifica identità.
É il caso della odiosa specifica – che però è sempre presente – in caso di eventi che coinvolgono più persone: “cade un aereo, a bordo non c’erano (oppure c’erano) cittadini italiani”. Ha senso distinguere le vittime sulla base della nazionalità? Ha un senso empatizzare con la loro sorte e non con quella degli altri?
Senza contare che la predisposizione al lutto collettivo potrebbe che renderci a lungo andare distaccati apaticamente dalla realtà quotidiana per limitare il nostro dolore, o meno capaci di distinguere l’importanza psicologica (e affettiva) rispetto a lutti individuali.
Infine, la sua spettacolarizzazione, di cui i media sono inevitabilmente (nel senso che è parte del loro modo di comunicare) responsabili, rende di fatto “merce” anche la sincera partecipazione delle persone.
In piazza, ma solo sull’onda emotiva
In questi giorni di cordoglio per la scomparsa di una popolarissima artista come Raffaella Carrà, ancora una volta mi interrogo sulle dinamiche che sollecitano la mobilitazione delle persone.
Evidentemente non è la razionalità ma solo l’emotività che spinge le persone a uscire dal proprio guscio e scendere per strada.
Siamo incapaci, da decenni, di trovare la forza e la voglia di organizzarci per chiedere conto dei nostri diritti, o per chiedere una soluzione a problemi che vanno oltre le contingenze economiche del momento.
Ma non manchiamo l’occasione di testimoniare la nostra vicinanza ad un trionfo sportivo oppure alla scomparsa di un personaggio pubblico.
Forse, col massimo rispetto per i sentimenti di ognuno e per gli involontari protagonisti di questi eventi (perchè di questo si tratta) tutto questo potrebbe indurci ancora una volta una riflessione.
Chiedendoci ad esempio se il tempo e il sentimento profusi per la morte di un personaggio pubblico non siano addirittura superiori a quelli dedicati ad un amico o un familiare.
Se il dolore, o la volontà di partecipare siano maggiori di quelli indotti dalla scomparsa di una persona vicina?
Chiederci insomma se questa volontà di partecipazione al destino di qualcuno che solo idealmente consideriamo parte della nostra vita – definita da rituali scanditi e condivisi – nasconda anche una contraddizione.
La distanza nei confronti di qualcuno che invece appartiene al nostro mondo; un’occasione per proiettare in un contesto “protetto” sentimenti altrimenti difficili da gestire.
Anche quanto viene vissuto con autenticità e buona fede può nascondere distorsioni, persino inconsapevolmente. Specie se, oltre che vissuti nell’intimità del nostro raccoglimento, vengono manifestati in piazza sotto l’occhio vigile delle telecamere, restituendo nell’occasione una risposta a quel bisogno di identità che è la ferita aperta del nostro presente irrisolto.