L’ingegneria politica – o la politica moderna – assume la sua forma compiuta quando Craxi raccoglie il testimone di uno dei più importanti partiti politici del secolo scorso, capitalizzando i relativi pochi voti attraverso un investimento azzardato ma lungimirante.
Il più grande partito di massa europeo
Quando nel 1976 prende la guida di quello che era stato forse il più importante partito di massa europeo, inizia il conto alla rovescia che avrebbe relegato il PSI all’irrilevanza politica nell’arco di poco più di un decennio.
L’ambizioso segretario non si fece scrupolo di offrire i suo sostegno alla traballante leadership democristiana, approfittando degli spazi concessi per instaurare un nuovo spregiudicato modo di fare politica – divenendo il referente di poteri economici.
Creando reti clientelari, consolidando l’idea (già presente nel DNA politico italiano) di un leader forte che gestisce il potere in modo autonomo. “Mani Pulite” decretò la sua fine, ma non quella del suo sistema, che già aveva fatto scuola.
Oggi del PSI, protagonista delle lotte operaie sin dalla fine del XIX secolo, non rimangono che le macerie: meno di quindici anni per distruggere un secolo di storia e di cultura.
È un po’ come tagliare un albero; bastano pochi minuti, ma ci vogliono anni per farne crescere un altro, e non è detto che accada.
Dal bene pubblico agli interessi particolari
Craxi fu un perfetto interprete della crisi di valori inaugurata dal ‘77; di quella società che, complice il fittizio benessere assicurato dall’aggravamento del debito pubblico, stava omologando le classi sociali attraverso il consumo di massa.
Trasformando il dibattito pubblico in una contrapposizione che non ne esauriva la complessità, e trasformando la collettività in gruppi portatori di interessi particolari.
La sua caduta fu solo causata da contingenze storiche e da un fisiologico ricambio della classe dirigente al potere: non furono gli elettori a decretarla, ma – indirettamente – la magistratura.
Craxi era ben conscio che la partita del consenso non si giocava più sull’appartenenza della classe lavoratrice ad una idea di società, ma nel gestire il potenziale di voti che poteva garantirea livello nazionale.
A livello locale, si fece garante degli interessi di lobby politicamente lontanissime da quello che era il suo tradizionale bacino elettorale.
Funzionò, ma solo per poco tempo: quando puntare su di lui era diventato troppo rischioso, gli furono voltate le spalle, finì sul banco degli imputati e pagò il conto per intero e con gli interessi.
L’ago della bilancia
Craxi scomparve, ma il “craxismo” fece scuola, attraverso la sua celebre metafora dell’”ago della bilancia”.
La strategia del leader socialista fu appunto quella di approfittare dell’equilibrio tra i due grandi partiti dell’epoca (DC e PCI) per offrire i suoi pochi parlamentari a sostegno di deboli governi democristiani, chiedendo in cambio sempre più potere, sino ad essere nominato capo del governo nel 1983.
La sua forza non derivava dal consenso (che superava di poco l’11%), ma dai soli 3 punti percentuali che separavano la DC dal PCI (33% contro 30%).
Bene o male, i governi repubblicani nascevano dalla traduzione in voti delle culture del Paese organizzate attraverso i corpi intermedi (appunto i partiti).
il 1983 consegna alla storia il primo governo guidato da un socialista nato in vitro per arginare il crescente consenso del PCI di Berlinguer da parte dei vertici DC.
Una operazione di ingegneria politica successiva al tentativo di apertura a sinistra fallito venti anni prima, e anticipatrice del cd. Pentapartito (oltre alla DC: Socialisti, Socialdemocratici, Liberali e Repubblicani).
Quanto di più distante dalla rappresentanza di un Paese spaccato tra la via italiana al comunismo democratico di Berlinguer e il conservatorismo democristiano.
L’ingegneria politica oggi
La discussione sul MES di questi giorni ripropone uno scenario simile, più vicino alla forma che al merito – senz’altro lontanissimo da una idea di politica che risponde alla promozione di valori e alla loro traduzione in termini operativi.
Pochi parlamentari, in grado di contribuire in modo decisivo all’esito del voto, rendono partiti assolutamente minoritari arbitri della linea del governo e della sua stessa sopravvivenza.
Ma non perché alla base ci sia il problema di trovare un compromesso.
Cittadini e partiti
La rappresentanza politica attraverso la quale si esercita la democrazia richiede un altro ruolo sia agli elettori, che ai loro rappresentanti.
Il cittadino con il suo voto, deve esprimere la propria preferenza per un modello di società, conforme ai valori in cui si riconosce, non per specifici provvedimenti, altrimenti diventa solo portatore di interessi particolari, e non parliamo più di “polis” ma di corporazioni.
I partiti, da parte loro, devono farsi portatori di queste visioni del mondo, ed è compito loro definire le modalità con le quali realizzarle.
Solo una buona cultura (nell’accezione più ampia del termine, che comprende naturalmente anche l’etica) può produrre una buona politica.
Ciò che si pretende dagli altri non può esser altro che quello che si è capaci di dare in prima persona.