26 dicembre 2004, una data che ha segnato la storia di uno dei Paesi più belli del mondo. Quindici anni fa lo tsunami nell’Oceano Indiano ha colpito la Thailandia, uccidendo più di 230.000 persone. Fu innescato da un terribile terremoto di magnitudo 9,1, con onde alte fino a 17,4 metri che si sono schiantate sulle rive di oltre una dozzina di paesi, cancellando in pochi attimi alcune comunità dalla mappa terrestre.
In tanti riuscirono miracolosamente a sfuggire alla forza della natura, mettendosi in salvo nonostante la furia dell’ondata oceanica. Tanti altri, troppi, persero la vita. Molti di essi furono identificati, ma migliaia di vittime ancora oggi non hanno un nome. I loro resti non sono mai stati rilasciati ai propri cari perché mai identificati.
Il container della “speranza”
Dopo lo tsunami, è stato posto un container presso una stazione di polizia nel sud della Thailandia all’interno del quale sono stati raccolti oggetti personali – portafogli, documenti, telefoni, computer, riposti in sacchetti ed etichettati come prove. Attraverso questi oggetti la polizia spera un giorno di poter pian piano dare un nome a tutti coloro che sono sepolti nelle tombe, poste nelle vicinanze, distinti solo da numeri identificativi.
Il colonnello Khemmarin Hassini, vice comandante della polizia nel distretto di Takua Pa, una delle aree più colpite dallo tsunami ha detto che sono ancora tanti i parenti delle vittime che sperano di ritrovare i familiari scomparsi.
In Thailandia, dove i morti sono stati oltre 5.000, l’unità di identificazione delle vittime di disastri (DVI) che coinvolge polizia e esperti forensi di 30 paesi, ha identificato oltre 3.600 corpi in meno di due anni. Si tratta di un progetto di enorme rilevanza, ma il colonnello Khemmarin, che faceva parte di quella squadra internazionale, ha detto che ormai molti dei “canali di comunicazione si sono chiusi” e i contatti sono andati persi.
“Se siamo abbastanza determinati e riattiviamo nuovamente le nostre operazioni, penso che alcuni dei 340 corpi non identificati potrebbero avere un nome“, ha detto a Reuters nella città di Takua Pa.
Una storia come tante
Tra le tante tragiche storie, ricordiamo quella di Hin Temna, 76 anni, che vive nel vicino villaggio di Ban Nam Khem, che ha perso sette membri della sua famiglia e sua figlia maggiore resta tra i dispersi. Nel suo villaggio morirono oltre 1.500 persone. “Non c’è motivo di sperare (troverò mia figlia). Non credo che lo faremo“, ha detto.
Una storia, come migliaia, per la quale si spera nel lieto fine, come quello della famiglia Rangkuti.
Una storia con il lieto fine
È una famiglia composta da padre, madre e due figli, che il giorno dello tsunami si trovava riunita nella propria casa. All’improvviso un’onda alta più di dieci metri spazzò via la loro casa e i due figli, Arif di sette anni e Jannah di quattro. I genitori si misero alla ricerca dei figli dispersi per più di un mese; alla fine si arresero, convinti di dover abbandonare ogni speranza di ritrovarli in vita.
Il destino però ha voluto che dopo dieci anni dalla catastrofe, nel giugno del 2014, i genitori ritrovassero la figlia Jannah. Uno zio vide per le strade di un villaggio una ragazzina e pensò che somigliasse tantissimo alla sua nipotina dispersa. Iniziò a fare domande e scoprì che proprio quella ragazzina era stata travolta dallo tsunami di dieci anni prima e trascinata dalle onde violente lontano da Aceh, dove viveva con la sua famiglia.
Proprio in quel villaggio un pescatore la soccorse e la portò a casa dove la sua anziana madre per dieci anni si era occupata di lei. Dopo aver sentito quanto raccontato dallo zio, i genitori di Jannah andarono a conoscere la ragazzina e scoprirono che si trattava proprio della loro bambina. “Dio ci ha regalato un miracolo“. “Io e mio marito siamo felicissimi di aver ritrovato nostra figlia dopo dieci anni. Il mio cuore batteva all’impazzata quando l’ho vista. L’ho abbracciata e lei si è gettata tra le mie braccia“. Da quel momento i due genitori hanno iniziato a credere di di poter ritrovare anche l’altro figlio, Arif, riaccendendo la speranza che potesse accadere qualcosa di oramai inimmaginabile.
Sono passati tanti anni, ma la speranza che chi piange i propri cari dispersi possa ritrovarli per darvi degna sepoltura potrebbe essere il lieto fine di una catastrofe che ha inevitabilmente segnato la storia dell’umanità.