giovedì, Marzo 28, 2024

La voce di Sumaya Abdel Qader: “Voglio far capire che portando il velo si può fare tutto”

Consigliera Comunale di Milano, docente, formatrice, ricercatrice, autrice, una laurea in Biologia, una in Mediazione Linguistica e Culturale ed una magistrale in Sociologia, portavoce di innumerevoli progetti. Ecco l’intervista a Sumaya Abdel Qader, la donna oltre il velo.

Qual è il tuo impegno istituzionale?

A 20 anni mi sono trasferita a Milano. Sono una Consigliera Comunale e mi occupo di immigrazione, interculturalità e multiculturalità, contrasto alla violenza e alle discriminazioni di genere, giovani, religioni.

Come vivi la tua religione in Italia?

Vivere una religione vuol dire, in primo luogo, praticarla, frequentare un luogo di culto. In Italia non è sempre facile: non c’è un riconoscimento formale tra lo Stato italiano e l’Islam. Anche il Ramadan è complicato: manca il lato sociale, il sentire della comunità che, ovviamente, è fortemente presente nei Paesi a maggioranza islamica. Nel personale tutto è fattibile. Ciò che davvero costituisce un ostacolo è “l’essere musulmano”. I pregiudizi costruiti intorno all’Islam, molto spesso, non permettono di vivere liberamente la propria identità.

Nel tuo libro Quello che abbiamo in testa, la protagonista definisce il suo velo “ribelle e femminista”, una definizione sentita necessaria per chi dipinge la donna musulmana come sottomessa. Puoi spiegarmi meglio?

“Il mio velo è femminista e ribelle”: sono queste le parole della protagonista del mio ultimo libro. Una frase che lei dice in un momento di profonda rabbia. Da un lato, si tratta di una provocazione verso chi pensa che il velo sia oppressione e sottomissione, quindi verso chi ha un pregiudizio. Dall’altro, è un modo per richiamare ad un’altra questione: quella della libertà. Chi indossa il velo sceglie di farlo. Ecco perché il velo diventa simbolo di autodeterminazione, di emancipazione personale e religiosa in un percorso cosciente. Questo è uno dei principi fondamentali dell’Islam. Definire il velo una scelta libera che una donna compie non significa negare che esistano determinate situazioni ma il messaggio originale vede il velo come una scelta assolutamente libera.

Il ritorno di Silvia Romano si è trasformato nell’ennesima occasione di giudizio. Cosa pensi al riguardo?

Silvia doveva essere accolta, non giudicata. Invece, il giorno dell’accoglienza è diventato il giorno del giudizio. Silvia Romano si è convertita all’Islam e questo ha particolarmente acuito il giudizio del pubblico: la sua conversione ha trascinato dietro il suo ritorno, tutto un insieme di pensieri che la gente aveva già a proposito della religione. Credo, sinceramente, che se si fosse convertita, ad esempio, al Buddhismo, le polemiche si sarebbero spostate verso altri vertici. Inoltre, penso che il Governo abbia delle responsabilità. Quest’ultimo ha esposto Silvia Romano quando avrebbe dovuto proteggerla. Silvia non è una star e non era suo compito rilasciare dichiarazioni al “pubblico”.

Sei una parte fondamentale nella costruzione e nello sviluppo della 4 stagione di SKAM. Tu sei stata Sana?

Sana non può rappresentare tutte ma, tante, sicuramente, sì. Tutte noi abbiamo vissuto quelle situazioni che lasciano Sana senza respiro. Sono dinamiche adolescenziali che non riguardano solo le ragazze musulmane. La religione, ovviamente, accentua tali dinamiche. Sicuramente c’è un po’ di Sana in me.

Qual è la forza di questa serie?

Poter raccontare la vita di una ragazza musulmana è stato importante. SKAM cambia un tipo di narrazione che racconta le donne musulmane in maniera fuorviante; che le dipinge come oggetti sessuali, di violenza, di sottomissione ed oppressione. Cose che ci sono ma non hanno nulla a che fare con la religione, bensì con la cultura di un Paese. La comunità musulmana è fatta da persone che vivono le difficoltà e le sfide della vita come tutti. Sana è la normalità che porta la specificità religiosa, la quale si intreccia, si incontra e si scontra con ciò che la circonda.

Molto spesso ci si rivolge a te aggrappandosi alle questioni che il velo attira. Tu, però, non sei solo il velo che indossi. Anche se rappresenti una “questione”, rappresenti in primo luogo te stessa. Quindi, ti “infastidisce” essere chiamata in causa solo per alcune tematiche? In un certo senso, pensi che il velo abbia coperto altri aspetti della tua vita?

Parlo di questo da 22 anni e la cosa che più mi dispiace è che sembra che non si sia imparato niente, che non sia cambiato nulla. Questo perché la narrazione che mostra il velo come un simbolo di oppressione è forte, ed è forte il suo eco. A volte vuoi mollare tutto, non ne possiamo più e parlo al plurale perché “noi” siamo tante. La morbosità di certi pregiudizi è talmente radicata che si fa fatica a spiegare la verità ma non mi interessa convincere che il velo non è un segno di annullamento. Adesso voglio far capire che portando il velo si può fare tutto. In quest’ottica, l’esperienza al Consiglio Comunale è fondamentale: si è smesso di guardare a me solo filtrandomi attraverso il velo; sono chiamata a parlare anche di questioni altre ed i cittadini mi scrivono per tantissime tematiche. Qualcosa sta cambiando.

Related Articles

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Stay Connected

0FansLike
0FollowersFollow
0SubscribersSubscribe
- Advertisement -spot_img

Latest Articles