venerdì, Marzo 29, 2024

La Sindrome di Münchhausen è davvero così “creepy”?

Teatro. Palcoscenico. Aperto sipario. Luci accese. Quest’ultime vanno a illuminare una persona. Ora, la scena è sua. Le appartiene. E, insieme a essa, gli occhi del pubblico. La loro attenzione. Le loro aspettative. Dunque, il/la protagonista si comporterà di conseguenza. Farà del suo meglio al fine di mantenere quegli sguardi su di sé. Ottenendo l’ammirazione di spettatori e spettatrice. Non è strettamente necessario improvvisarsi attori o attrice per assumere quest’atteggiamento. La sindrome di Münchhausen ne è la prova.

Quali sono le origini della sindrome di Münchhausen?

Si dice che “Verba volant, scripta manent”. Ossia “Le parole volano, gli scritti restano”. In effetti, impugnare penna e calamaio significa dipingere il mondo nero su bianco. Fare ordine fra i propri pensieri. La scrittura riesce a far emergere le sfumature più opache. Quelle più celate. Situate nei meandri della nostra mente. Riportandoli a galla, ecco che riacquistano valore. Importanza. Cominciano a luccicare. Come se d’un tratto si fossero posate su di esse tante piccole gocce di rugiada. Le quali, alla luce della luna e del sole, brillano come stelle. Lo scenario del quale stiamo per discernere è può definirsi un mix perfetto tra memoria scritta è orale. È il 1785. Lo scrittore Rudolf Heinrich Raspe pubblica una delle sue opere principali: “Le avventure del Barone di Münchhausen”. Quest’ultima narra di Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen. Ex capitano di cavalleria nell’esercito, l’uomo è ancora oggi ricordato per i suoi racconti divertenti ed esagerati. Ora facciamo un salto temporale. Ci troviamo nel 1951. Il medico britannico Richard Asher denota una serie di comportamenti particolari e caratteristici di alcuni/e dei/delle suoi/sue pazienti.

Tali soggetti si presentavano nel suo studio in maniera piuttosto frequente. Essi erano soliti a riportare una serie di sintomi genericamente insoliti, per una persona in buona salute. L’uomo ascoltava racconti di episodi allarmanti. Spesso esagerati. Per non parlare della mancanza di una connessione logica tra un sintomo e l’altro. Dunque, da buon medico, egli procedeva con tutte le indagini dei vari casi. Sottoponeva i/le suoi/sue pazienti a esami diagnostici, se necessario anche invasivi. I quali, puntualmente, venivano accettati senza alcuna opposizione.


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La scoperta della patologia

Eppure, i conti non tornavano. Queste persona risultavano clinicamente in condizioni ottimali. Insomma: le sintomatologie riportate non corrispondevano con alcuna causa organica. A rigor di logica si potrebbe ipotizzare un movente di natura psichica. Ciò è in parte corretto. Il dottor Richard Asher, dopo anni e anni di studi e indagini, finalmente arrivò a una conclusione. I/le suoi/sue pazienti gli stavano mentendo. Essi/e fingevano di riportare sintomi patologici al fine di attirare la sua attenzione. Dunque, egli denominò questo comportamento come Sindrome di Münchhausen. Rifacendosi al barone e ai suoi racconti. In medicina, il termine “Sindrome” fa riferimento a complesso di sintomi, obiettivi e soggettivi, che caratterizza un determinato quadro clinico. Non a caso, il lemma deriva dal greco “Syn-dromos”, che letteralmente significa “Correre insieme”. Una parola particolarmente esplicativa, dato che indica un insieme di sintomi che si presentono simultaneamente, talvolta senza che se ne conosca l’eziologia. Infatti, sebbene i/le pazienti affetti dalla sindrome di Münchhausen non presentino i sintomi da loro riportati, possono comunque considerarsi patologici/che.

Solo bugie? Niente affatto

Le cause di questa malattia possono essere estremamente variabili. Come esplica l’introduzione di quest’articolo, talvolta la ragione può ritrovarsi in un bisogno d’attenzioni. Ciò nonostante, il quadro è molto più complesso. Non si tratta di un semplice desiderio padroneggiare la scena. E comunque, se anche così fosse, vi sarebbe da scovare una motivazione più profonda. L’essere umano è un animale dalle infinite sfumature. Non sempre quest’ultime possono dirsi nitide. Né, tantomeno, spiegabili. La nostra mente è un universo che noi in primis fatichiamo a esplorare nella sua interezza. Possiamo dunque comprendere che per chi vede tutto dall’esterno risulta ancora più difficile. La sindrome di Münchhausen è considerata ancora oggi una delle patologie più misteriose di sempre. A tratti addirittura inquietante. Nell’immaginario comune la salute rappresenta un patrimonio dal valore inestimabile. Ritrovarsi in un corpo sano ci permette di assaporare la vita. Di esplorare questo bizzarro pianeta del quale siamo ospiti. Per non parlare della visione sociale dell’ospedalizzazione. In gergo comune, ci si considera più o meno fortunati/e in base alla frequenza con la quale vediamo il medico.

La sindrome di Münchhausen sembrerebbe ribaltare questi luoghi comune. Ecco uno dei motivi per i quali si fatica a comprenderla. Eppure, questa patologia non denota una sorta d’attrazione verso il concetto di malattia. Né il semplice bisogno di sentirsi curati/e. Sovente, i soggetti affetti sono caratterizzati da uno o più disturbi della personalità. Non è raro che qualcuno di loro abbia alle spalle traumi pregressi. Magari non ancora accettati e superati. La depressione, inoltre, può considerarsi una sorta di cliché tra tali pazienti. È fondamentale tenere a mente che non siamo di fronte a soggetti che agiscono con malignità o per cattiveria. Piuttosto, si tratta di persone fragili. Perciò, è bene trattarle come tali.

Sindrome di Münchhausen: una possibile terapia

Psichiatri/e e psicologhi/e concordano sul fatto che non sia semplice definire una terapia. Non esistono farmaci che possano curare la sindrome di Münchhausen. A livello farmacologico non si può che intervenire sulle possibili radici della stessa. Al contrario, diverso è il quadro per quanto riguarda la psicoterapia. C’è chi ritiene che anche quest’ultima sia piuttosto inefficace. Eppure, qualche esperto/a la pensa diversamente. Un percorso psicoterapico può risultare utile al fine di scorgere le origini del problema. Procedendo dunque a districare quei nodi che affliggono mente e corpo. Non è altresì da sottovalutare la maniera con la quale ci si rivolge al/alla paziente. Vietato colpevolizzare. Nessuno è reo/a delle proprie patologie. Nessuna patologia può dirsi volontaria. L’apparente volontà che contraddistingue la sindrome di Münchhausen non è altro che il sintomo di una problematica psichica. Dunque, la procedura corretta consiste nel rendere consapevole il soggetto colpito. Senza alcun tipo di giudizio o tono alterato. È fondamentale ascoltare. Comprendere. Aiutare. Tenendo a mente che ogni essere umano di questa Terra è meritevole di un’ancora di salvezza.



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