La parabola della vita dello scrittore e filosofo Albert Camus è breve quanto intensa: nasce il 7 novembre del 1913 in Algeria, a soli 43 anni vince il premio Nobel, e muore tragicamente tre anni dopo in un incidente stradale con l’editore Gallimard sulla strada di Parigi. In pochi anni lascia un segno indelebile non solo nella letteratura mondiale, ma anche nel pensiero del ‘900. Camus alternava la saggistica alla narrativa, trasponendo nell’uno in forma di storia quello che aveva espresso nel precedente in termini filosofici. Il mito di Sisifo si compie ne Lo Straniero; L’uomo in Rivolta ne La peste. La peste è il suo romanzo che preferisco, quello in assoluto – più di tutti – avrei voluto scrivere.
L’ho letto la prima volta verso la fine degli anni ‘80, e immancabilmente lo rileggo ogni anno, ispirato da qualcosa che lo richiama alla mia mente, anche solo per analogia; e ogni volta, per qualche motivo, riesco a trarne qualcosa di nuovo. Come adesso.

La peste è ambientato nella città di Orano, in Algeria, colpita da una epidemia che la isola dal resto del mondo. Dapprima le persone fingono che non stia succedendo niente; poi, mentre la peste dilaga, si frammentano nei comportamenti più diversi: chi fa mercato nero dei sempre più scarsi viveri, chi è convinto che sia una punizione divina, chi si abbandona agli eccessi dell’alcool, chi cerca di scappare. In uncrescendo di paura, si scatena una inutile caccia ai presunti untori, poi, di fronte al picco del contagio, la popolazione cede al panico e si abbandona fatalmente agli eventi.
Ma in questo contesto di disperazione emerge inaspettatamente dalla massa la figura di uno degli eroi “normali” di Camus: il dottor Rieux, che da subito decide di non abbandonare Orano ed impegnarsi per salvare quante più vite è possibile. La sua visione della realtà è capovolta: la peste, diviene condizione di fraternità, un pretesto di solidarietà verso il prossimo a cui si sente accomunato dalla lotta senza tregua contro un male universale che deve essere affrontato da ognuno per la salvezza di tutti.

Il contagio è la metafora della decadenza d’animo e della barbarie umana, eredità della recente seconda guerra mondiale e del nazismo (il romanzo è del 1947): alla ferocia di una malattia – anche morale – che sembra inarrestabile e priva di ogni logica, Camus contrappone la certezza che in qualsiasi momento della nostra vita si può scegliere di fare la cosa giusta o quella sbagliata, anche senza credere che in cambio ci sia una ricompensa, né in questo mondo né in un altro. Il male, ci dice, è parte della vita ma il nostro dovere è quello di rifiutarlo per non trasmetterlo ad altri, e se possibile cercare di guarirlo.

Sa che ogni rinascita dell’umanità non cancellerà i danni dell’esperienza vissuta: che l’impegno è una sorta di tregua momentanea ispirata dal desiderio di vivere dell’uomo, che deve essere continuamente ribadito per mantenere la propria forza. E sa anche che “il bacillo della peste non muore né scompare mai”, e che di fronte al male l’unico modo per provare a combatterlo è quello di unirci, non di dividerci.