La disabilità nei testi biblici Giudaico-Cristiani.

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Nell’Antico e nel Nuovo Testamento sono presenti in oltre 200 passaggi che evocano forme di disabilità[1].  Giacobbe, uno dei padri dell’Ebraismo, ci permette un’analisi del mito fondativo della disabilità. Simbolicamente, essa non rappresenta un’umana debolezza come accadrà nel Nuovo Testamento ma rappresenta il Male stesso. Le menomazioni menzionate nei testi sacri assumono in particolare un significato metaforico di colpa, peccato o addirittura di condizione spirituale negativa collettiva come quando si indica l’intero popolo d’Israele come obiettivo di anatema. In particolar modo però, la maggior parte delle metafore riguardano la cecità, la sordità, il mutismo e la zoppia  soprattutto perché, molto probabilmente, molte delle altre disabilità presenti dalla nascita, venivano eliminate con il nascituro stesso dalla stessa famiglia di appartenenza;  Ogni male e quindi ogni forma di malformazione e ogni condizione  di disagio fisico possono essere guarite solo direttamente da Dio, nel caso  però che egli lo voglia: “Il Signore ridona la vista ad i ciechi” (Salmo 146,8) e questo principio verrà mantenuto anche nel Nuovo Testamento dove è Gesù ad intervenire con i suoi miracoli. La disabilità è quindi l’espressione dei propri cattivi comportamenti e può essere tolta sola da Dio. Per questo motivo coloro che riuscivano a sopravvivere ad una selezione sommaria operata dai genitori e dai parenti stessi fin subito dopo la nascita erano obbligati a vivere di stenti in comunità separate.

“Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno” (Isaia 29,18).

Sarà il profeta Isaia ad evocare l’intervento divino, quando fa rientrare la disabilità in una dimensione non più scandalosa e soprattutto non più separata dal resto della comunità, considerandola come il massimo esempio di emarginazione che per volere di Dio viene trasformato, purificato, guarito.  Isaia incoraggiò il suo popolo al reinserimento delle persone disabili in una dimensione comunitaria maggiormente accettabile “Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa” (Isaia 35,5-6).

In tutto l’Antico Testamento rimane comunque immanente il concetto che è il peccato a portare disabilità, lo stigma, diviene conseguenza di una punizione divina verso i genitori dovuta solitamente a dei peccati legati all’esercizio della sessualità. Anche questo principio non cambia nel Nuovo Testamento e perdura come precetto culturale per tutto il Medioevo e oltre. Esso rimane ancora legato alla cultura Giudaico-Cristiana purtroppo ancora oggi e da qui nasce il pretesto per porsi contro la condizione di omosessualità o di libertà di scelta sessuale fuori dai vincoli matrimoniali (ricordiamo in proposito tutti gli anatemi che vennero lanciati dai pulpiti durante gli anni Ottanta quando inizio ad imperversare l’HIV che vedevano nella malattia il giusto castigo divino conseguente l’omosessualità o addirittura la stessa sessualità pre-matrimoniale o anche l’esprimersi apertamente in maniera negativa verso l’idea della così detta coppia di fatto o ancora, il non somministrare la comunione alle persone divorziate legalmente) “Dio punirà disordini matrimoniali, adulterio, dissolutezza” (Sapienza 14,6). E’ addirittura lo stesso atto impuro a produrre il danno, poiché la fornicazione contamina (Ezechiele 23, 17). I brani dell’Antico Testamento relativi ai peccati di fornicazione e adulterio puniti da Dio sono talmente numerosi e importanti da rendere il completo controllo sessuale uno dei principi costitutivi della religione stessa.

Nei testi biblici non esistono però riferimenti all’esposizione, all’abbandono e all’eliminazione fisica dei soggetti disabili ma nella pratica popolare, vien da sé che se un nascituro con disabilità è la spia di condotte familiari peccaminose, eliminare il nascituro significava permettere l’evitamento del giudizio pubblico o della seguente punizione (ricordiamo che l’adulterio maschile era pagato dall’uomo come onta che si risolveva con dovuti “mea culpa” e al limite qualche sanzione pecuniaria mentre dalla donna con la lapidazione pubblica e questo sempre in virtù della forte disparità di genere che la religione patriarcale propone, regola e comanda). Inoltre è da sottolineare che in una società che viveva di duro lavoro e di stenti, senza conoscenze mediche né strumenti, sarebbe stato impossibile seguire e curare una grave disabilità. Per le disabilità quali quelle enunciate all’inizio di questo articolo, è possibile storiograficamente affermare che fossero in vigore prassi di messa ai margini, come già accennato, cioè una dura forma di esclusione interna (che poi prenderà nome di ghettizzazione appunto dalla parola veneziana Ghetto che indicava i luoghi dove vivevano gli ebrei, parola che in inglese vien ben definita con il sostantivo “apartheid”). Per quanto riguarda le cerimonie, dopo Isaia, le persone disabili potevano partecipare (seppur separati) ad i culti ma non potevano officiare né tantomeno presentare offerte il che in pratica, era un impedimento ad essere graditi completamente a Dio appunto perché impuri. La cosa assolutamente positiva è che nella Bibbia, dopo l’intervento d’Isaia, non s’incentiva in alcun passo l’eliminazione fisica dei disabili né la completa espulsione sociale paventando invece, un’inclusione sociale e una certa forma di solidarietà comunitaria che seppur estremamente marginale, si esprime sia attraverso la pratica della ghettizzazione che attraverso la pratica dell’accattonaggio e quella delle conseguenti elemosina delle persone sane. Con il Nuovo Testamento, pur non cambiando la figura della disabilità legata a colpa e peccato, cambia il messaggio di Gesù Cristo che insegna quanto sia fondamentale la carità per essere vicini a Dio.

E’ all’interno del principio di carità che prenderà forma una società maggiormente solidale ed inclusiva che dà a tutti i peccatori la possibilità di redimersi attraverso le opere di bene. Nel discorso delle beatitudine addirittura, Gesù affermerà che coloro che sono ai margini e che soffrono (quindi i portatori di sofferenza ed handicap sono compresi) saranno i primi a poter entrare nel Regno dei Cieli. Con Gesù le sofferenze umane si legano simbolicamente alla sua sofferenza in croce, tutte le sofferenze diventano croci da portare ed è così che inizierà a nascere una visione maggiormente inclusiva: Gesù guarisce la malattia, monda il peccato avvicinandosi e toccando queste persone, respingendo l’idea di contagio e pericolosità attraverso il suo stesso essere incoraggiando tutti gli altri a fare nello stesso modo. Lo stigma individuale e sociale della disabilità, viene così per la prima volta palesemente alleggerito nella civiltà Occidentale. Ricordiamo il fatto che Gesù stesso è descritto nei testi apocrifi come affetto da zoppia e questa condizione è descritta anche dai documenti dell’epoca: si narra di lui come il predicatore zoppo, tanto è vero che il bambin Gesù viene rappresentato in molti dipinti e affreschi antecedenti il Consiglio di Trento con un piedino storto. Questa informazione verrà spazzata in seguito al Consiglio appunto perché la zoppia veniva considerata come impurità e non gradimento agli occhi di Dio.

E’ da sottolineare che solo all’interno della religione Induista alcune forme di malformazione e di disabilità sono considerate come indizio del fatto di essere molto graditi a Dio.

Silvia d’Amanzo

[1] https://www.docsity.com/it/storia-della-disabilita-3/2017881/