giovedì, Aprile 18, 2024

«La cosa peggiore? Non poter tornare a casa». Storia di un’italiana di ritorno dall’Inghilterra

È arrivato nel tardo pomeriggio di venerdì 20 marzo, l’annuncio da parte di Boris Johnson di apportare misure più dure sul territorio inglese al fine di scoraggiare l’incontro tra i cittadini durante questa emergenza Coronavirus. Sono stati dunque fatti chiudere tutti i caffè, pub, bar, club, ristoranti, palestre, discoteche, teatri, cinema e centri ricreativi. Ma fino a pochi giorni fa, la sensazione che alcuni cittadini italiani avevano dell’Inghilterra, era quella di un Paese non del tutto cosciente della situazione a cui stava andando incontro. «L’Università (Oxford Brooks University, ndr) aveva una mail chiamata Covid-19 alla quale potevi rivolgerti per fare domande, senza in realtà ottenere però vere risposte. Probabilmente non volevano generare allarmismo, eppure, anche dopo la certificazione di uno studente positivo al Coronavirus all’interno dell’istituto, le lezioni sono continuate frontalmente. Non è stata considerata l’ipotesi di sospenderle». Questo il racconto di Martina, una ragazza di 21 anni di Verona, ritornata dall’Inghilterra dove si trovata per frequentare un master alla Oxford Brooks University. E ora, dopo soli due mesi dalla partenza, ha deciso di tornare a casa, dove si sente più al sicuro. Ci racconta la sua storia tramite Skype, dalla sua stanza nel veronese dove si trova in isolamento. «Ovviamente prima che partissi mia sorella ha chiamato l’ASL di Verona per informarsi sulle procedure da prendere nel caso in cui avessi deciso di tornare. Le indicazioni che le sono state date mi imponevano una quarantena di quindici giorni in una stanza in cui potessi stare da sola, con un bagno personale senza poter avere il minimo contatto con nessuno. Tanto che adesso i miei genitori mi lasciano da mangiare fuori dalla porta, in attesa che queste due settimane finiscano per poter continuare la quarantena in loro compagnia».

Che impatto ha fatto tornare a casa e trovare un’Italia silenziosa?

«Penso di essermene resa conto solo una volta raggiunto il centro di Roma. Certo, l’aeroporto di Fiumicino era vuoto, però vista l’ora (le 10.30 di sera, ndr) non mi ha fatto troppa impressione. Una volta scesi dall’aereo ad aspettarci c’erano due personali della Croce Rossa che, grazie ad uno strumento simile a un portatile, ci hanno rilevato la temperatura. Dopodiché le forze dell’ordine, non c’erano infatti dipendenti dell’aeroporto, ci hanno messo in coda mantenendo il metro di distanza. In quell’istante forse ho iniziato a percepire la gravità della situazione. Tutti intorno a noi erano seri, tesi. Una volta terminati i controlli e presa la valigia, siamo usciti e abbiamo preso un taxi. Quelli non mancavano, ma tutti i tassisti erano muniti di mascherina e guanti. E poi eccola, Roma completamente vuota. Certo, era sera, però l’ultimo ricordo che avevo della Capitale era di una città caotica, piena di gente, rumorosa a qualsiasi ora del giorno e della notte. Non era completamente deserta, un paio di persone le ho viste girare, eppure si percepiva quel tacito silenzio, quasi inquietante. Addirittura davanti alla stazione di Roma Termini c’era solo una pattuglia della polizia e nient’altro. Penso di aver capito solo in quel momento cosa stesse davvero accadendo qua in Italia. Salire in stanza, uscire sul balcone e non sentire una mosca volare è stato un impatto emotivo impressionante».

Audio WhatsApp di Martina una volta atterrata a Roma per gli amici in Inghilterra

Il vostro volo era l’unico con destinazione Roma Fiumicino?

«No, c’era anche un altro aereo, ma non so da dove arrivasse. Tieni conto che dall’Inghilterra l’Ambasciata, in accordo con il Governo italiano, ha messo a disposizione solo tre voli per permetterci di tornare in Italia. Io sono partita da Londra Heathrow alle 18.50 del pomeriggio, mentre il volo delle 20.00 fino al giorno prima era incerto. Addirittura era stato cancellato e solo in seguito ripristinato».

Prima che la Farnesina mettesse a disposizione questi voli non c’era modo di tornare?

«Non con voli diretti. Facevano tutti scalo in Germania o da qualche altra parte. In quel caso però avrei dovuto prendere un treno o un aereo per arrivare a casa. In tanti hanno scelto questa opzione, noleggiando poi un’auto per concludere il rientro. Per esempio, conosco una ragazza che dalla Spagna ha preso una macchina in compagnia di altre cinque persone, mentre la mia coinquilina tedesca è stata costretta a compare un nuovo biglietto dopo che le hanno cancellato il volo. Sai, quando sono rientrata mi sono sentita in un certo sento un’immigrata. Avevo paura che il Governo inglese non facesse nulla per frenare l’emergenza e quindi temevo di poter essere contagiata anche io, senza aver nemmeno la possibilità di tornare nel mio Paese. E questa è la sensazione peggiore. Soprattutto in una situazione di incertezza come questa, in cui non vale essere italiani per poter tornare in Italia. Infine sono tornata a Verona con il treno. Ma la cosa che più di tutto mi ha segnata è stata arrivare a casa e non poter abbracciare nessuno, non poter avvicinarmi ai miei genitori, dover caricare le valigie in modo che nessun altro potesse toccarle. Poi le ho aperte in giardino, ho preso le cose necessarie, sono salita in stanza attenta a non toccare nulla, e mi sono fatta la doccia come se il virus fosse attaccato a me».

Il treno era pieno?

«Sì, c’era tanta gente che si muoveva, ma dovevamo tutti rispettare la distanza di sicurezza. Dovevamo sederci nel sedile più vicino al finestrino e nei posti da quattro poteva starci solo una persona. Anche gli annunci di Trenitalia sono cambiati. Ora ti avvisano di tenere le mascherine, le distanze di sicurezza, di avere con te l’autocertificazione e, sembra assurdo, ma banalmente anche quello mi ha sconvolto. In aereo invece la situazione era l’opposto. Eravamo tutti vicini l’uno con l’altro, e ovviamente l’aereo era full perché tornavano tutti a casa».

ritorno dall'Inghilterra
Trenitalia (Foto di Martina Meneghetti)

Facciamo un passo indietro.

«Io sono partita per Oxford a inizio anno per frequentare un master alla Oxford Brookes University. Vivevo in uno dei sei appartamenti della residenza dell’Università a contatto con altre quattro persone. Per cui, per quanto io provassi a stare attenta, non era detto che gli altri seguissero le regole. Infatti, nonostante si lavassero le mani e stessero attenti alle cose minime, poi passavano il resto della giornata a giocare a palla al parchetto. La possibilità di contagio era dunque elevata. Io poi ho frequentato le lezioni fino a giovedì 12 marzo, dopodiché da venerdì 13 a mercoledì 18, giorno della mia partenza, sono rimasta in casa in autoisolamento. Il volo poi l’ho comprato durante il weekend, ed è stata una vera impresa. Ovviamente dopo che è uscita la notizia dei nuovi voli, tutti hanno fatto la corsa ad Alitalia, tanto che ho dovuto provare svariate volte prima di riuscire a finire l’acquisto. Ad un certo punto addirittura, il sistema non mi dava più posti disponibili. Pensavo di impazzire».

Com’era la situazione a Oxford?

«A Oxford c’erano più casi rispetto a Cambridge dove avevo degli amici, essendo più vicini a Londra. Dove stavo io per esempio c’erano già due casi certificati, entrambi nella mia Università. Addirittura, la mail per avvisarci è arrivata venerdì 13 marzo, ma lunedì 15 le lezioni si sono comunque tenute. Dopodiché i rappresentanti degli studenti, tramite una raccolta firme, hanno scritto all’Università per chiedere la chiusura. Martedì è arrivata finalmente la notizia che le lezioni sarebbero state sospese. Ora infatti La Oxford Brooks non è chiusa, tutti i servizi là dentro sono aperti. Ora ci hanno dato tre settimane anziché una, di reading week ovvero la settimana di preparazione agli esami. Poi dal 3 al 18 aprile ci saranno le vacanze di Pasqua, e a seguire due settimane in cui condenseranno le lezioni online precedentemente perse. Proprio ora ci è arrivata anche una mail in cui ci avvisano che gli esami scritti di maggio saranno sospesi e quindi trasformati o in saggi (tesi, ndr) o in esami orali».

Quindi l’Università sta solo prendendo tempo…

«Esatto. Nonostante quello che si sente dall’Italia, non fanno nulla. Ma non solo. Anche tutti i miei amici stranieri non si rendevano conto della gravità della situazione. Addirittura all’inizio sembrava che il problema fosse nostro perché noi italiani non siamo in grado di affrontare queste situazioni. Perché confrontavano quello che accadeva in Italia con il resto d’Europa. E intanto io vedevo i video della gente cantare sui balconi e piangevo perché non mi sentivo parte di tutto questo. Volevo essere a casa. Ora infatti capisco quando mia sorella mi diceva “Tu non sei qua, non puoi capire la situazione”. Quando sono scesa dal treno, alla stazione di Verona Porta Nuova, è stato strano proprio l’impatto ambientale. Oltre alle solite mascherine, guanti, autocertificazioni ecc., in giro eravamo solo noi e i militari, visibilmente stanchi. Niente a che vedere con la confusione a cui normalmente ero abituata quando arrivavo in stazione».

Tornando a Oxford, la gente che girava per strada non era preoccupata?

«Negli ultimi tre giorni prima di partire, specialmente nel weekend, ho notato che gli autobus erano più vuoti. Anche se la gente continuava a girare senza mascherine. Eppure farmacie e supermercati erano stati presi d’assalto, non trovavi più detersivi, pasta né carta igienica. Era finito tutto. Ma la cosa strana è che nonostante la corsa per comprare mascherine e disinfettanti, continuavano ad uscire per andare nei pub e festeggiare la chiusura dell’Università».

Cosa ti hanno detto quando hai deciso di tornare a casa?

«Tutti mi dicevano: “Cosa torni a casa che è zona rossa?”. Penso di essere stata presa come una pazza, la classica italiana che deve tornare da mamma. Poi però, quando hanno chiuso l’Università, la gente ha iniziato ad avere paura. Cancellavano i voli, e tutti volevano tornare. Non ero più io quella pazza».

Qualcuno dei tuoi compagni è rimasto?

«I miei compagni italiani sono tornati tutti, e con loro anche due ragazzi tedeschi e uno finlandese. Alcuni ragazzi indiani invece, hanno provato a tornare ma il 17 marzo lo Stato indiano ha chiuso le frontiere e sono rimasti bloccati in Inghilterra. Altri infine sono tornati a casa non appena è iniziata l’emergenza».

E che notizie ti arrivano ora dall’Inghilterra?

«Ad oggi pare che non ci siano più test disponibili. Mi ha scritto una mia amica la cui sorella dopo aver mostrato evidenti sintomi, ha chiamato l’NHS (l’ASL inglese, ndr) che le ha consigliato di stare in autoisolamento per sette giorni, dopo i quali pensano che il virus sia passato e non sia più efficace. Ma non fanno il test. Anche la mia coinquilina aveva alcuni sintomi, sicuramente riconducibili a un raffreddore mai curato, e per sicurezza ha chiamato l’NHS che le ha imposto l’autoisolamento. Ma il fatto stesso che in Università su una classe di cento persone siano risultate positive solo due mi sembra strano. Infatti, anche questo ha influito sulla mia decisione di tornare a casa».

In Italia invece ti hanno detto qualcosa per i tamponi?

«Mia mamma ha chiamato il medico di base per chiedere se fosse possibile farlo. Ma anche qua a Verona ha detto che iniziano a scarseggiare, e lo riservano solo a chi presenta sintomi gravi. In ogni caso, se risulto positiva, penso di averlo contratto in Inghilterra e non in viaggio».

Ora che cosa farai chiusa in stanza per due settimane?

«Te lo potrò dire con chiarezza tra tre giorni. È una sensazione strana perché sono qua ma so che non dovrei esserlo. Quindi sono arrabbiata, affranta, e tornare nuovamente in Italia per colpa del Coronavirus mi infastidisce. Per fortuna devo studiare, altrimenti il tempo non passerrebbe mai. Mi motiva solo il fatto di non voler contagiare, nel caso in cui fossi positiva, la mia famiglia, non vorrei vanificare il sacrificio che loro hanno iniziato una settimana fa. Nonostante questo c’è da dire che sono infinitamente grata di essere riuscita a tornare e non sono mai stata così felice di trovarmi qua come ora. Ho sempre avuto un rapporto di amore-odio con il mio Paese, ma nonostante questo sono contenta di essere tornata e fiera di essere italiana».

Giulia Taviani
Giulia Taviani
22 anni, nasco a Verona, mi sposto a Milano ma sogno Bali. A sei anni ho iniziato a scrivere poesie discutibili, a 20 qualcosa di più serio. Collaboro con Master X, Periodico Daily e nel tempo libero parlo di calcio su RBRSport. Ho scritto di cinema, viaggi, sport e attualità, anche se sono fortemente attratta da ciò che è nascosto agli occhi di tutti. A maggio 2020 ho pubblicato il mio primo libro "Pieno di Vita".

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