La barchetta rossa e la zebra: riorganizziamo il buio

<<Dottore, lei come si comporterebbe se a un tratto in casa sua scomparisse la luce?>>. <<È semplice. Accetterei il buio. E poi lo riorganizzerei>>. Questo botta e risposta è attribuito a un’intervista effettuata al dottor Franco Basaglia. Questo pioniere della medicina psichiatrica e neurologica ha dato il la a una serie di svolte senza pari. È riuscito a fungere da focolare nel buio più intenso. È proprio al pensiero di questo grande uomo che s’ispira il progetto “La barchetta rossa e la zebra”.

Di che cosa si occupa il progetto “La barchetta rossa e la zebra”?

Cosa ci fa questo quadrupede tipico della savana su una barchetta color rosso? Oggi vi raccontiamo una storia. Non una favola. Piuttosto, una realtà che si attua nella “Città che si vede solo dal mare”. Siamo a Genova. Il luogo più attivo d’Italia nel campo del volontariato. È qui che prende vita un progetto senza pari. Quella barchetta rossa è un mezzo sul quale possono montare tutti. E la zebra? Osserviamola con attenzione. Una delle peculiarità che la caratterizza è il suo manto striato. Se viste con occhio critico, quelle strisce possono ricordare le sbarre di una gabbia. Di una galera. Ed è qui che troviamo l’intento di questa iniziativa. “La barchetta rossa e la zebra” si occupa di fare da ponte tra i detenuti delle case circondariali di Marassi e di Pontedecimo, due quartieri genovesi, e le loro famiglie.

In particolare, lo scopo principale del progetto è quello di mettere al centro i bambini che hanno uno o più genitori in carcere. Quando una persona con uno/a o più figli/e a carico si trova in manette, non è solo il suo mondo a modificarsi. Incorre una serie di rischi che è giusto tenere a bada al fine di arginarli. Uno di questi è la povertà educativa minorile. Ecco dunque che alcune realtà genovesi private e pubbliche si uniscono per dar vita a questo progetto. Tra questi troviamo la cooperative sociale “Il cerchio delle relazioni” e “Il biscione”, la “Veneranda compagnia della misericordia”, la “Fondazione Rava”, “ARCI Genova” e l’associazione “Con i bambini”.

I punti cardine del progetto

“Ohana significa famiglia. Famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato”. Purtroppo non sempre questo principio riesce ad attuarsi. Soprattutto quando si parla di equilibri familiari labili. In un mondo già di per sé costellato di giudizi e pregiudizi, è fondamentale fungere da ancora di salvezza. “La barchetta rossa e la zebra” mette a disposizione i alcuni spazi dedicati agli incontri sicuri fra i genitori detenuti e le famiglie. Con un occhio di riguardo per i più piccoli. Questi luoghi sono a misura di bambino. Le loro mura riproducono l’ambiente carcerario in maniera da essere compreso da chi necessita di farlo proprio. Non è tuttavia finita qui. Il progetto si cura delle famiglie e soprattutto dei bambini e delle bambine attraverso alcuni punti fondamentali.

L’importanza della verità

Per quanto la società si preoccupi di proteggere gli adulti di domani, dobbiamo riconoscere che spesso e volentieri tendiamo a celare la realtà ai loro occhi. Magari a fin di bene. Poiché il vero volto del mondo ci sembra così crudele che ci sentiamo in dovere d’indorare la pillola. Facciamo credere loro che esista un tizio che con una slitta trainata da renne porta doni in tutto il mondo. Solo quando raggiungeranno un’età che noi reputiamo consona, confesseremo loro la realtà. Spiegando loro che in fin dei conti, il vero valore di Babbo Natale sta nel fare del bene in silenzio. Ebbene, “La barchetta rossa e la zebra” si occupa di proporre ai bambini un rapporto fondato sulla sincerità. I cuccioli d’umano sono per natura curiosi. Tendono a porre parecchie domande. Soprattutto nel bel mezzo di un situazione che fanno fatica a comprendere.

È dunque di fondamentale importanza fare luce sulla questione. Soddisfacendo la curiosità dei/delle bimbi/e in maniera esaustiva. Non è attraverso mille scuse che li difenderemo. Anzi. Nascondendo loro la verità non faremo altro che aumentare le loro perplessità anche future. Mettendo in dubbio un rapporto di fiducia reciproca. Il fatto di mettere il/la bambino/a al centro predispone che egli/ella sia a conoscenza dei fatti nella loro autenticità.

Peccato e peccatore

Conoscere la verità significa mettere in moto una serie di meccanismi cerebrali. È necessario poter “digerire” i fatti. Associare la figura genitoriale a un reato può far sì che la stima di un figlio verso quest’ultima crolli. È come se d’un tratto il/la nostro/a supereroe/eroina preferito/a si spogliasse della sua invincibilità. Questo perché troppo spesso tendiamo a dipingere le madri e i padri come degli esseri soprannaturali. Dimentichiamoci che anche quest’ultimi sono persone. Esseri umani capaci di sbagliare. Ovviamente la consapevolezza non lenisce la colpa. Un reato grave rimane scolpito nella sua pesantezza.

Anche da questo punto di vista è fondamentale la sincerità. E non è facile. È necessario far sì che il/la bambino/a posi lo sguardo su un crimine. E successivamente, su chi l’ha messo/a al mondo. Nessuno vede il perdono come un mezzo necessario al processo. Piuttosto, si parla di accettazione. È utile che il/la diretto/a interessato/a riconosca il reato nella sua interezza. E di conseguenza accostarlo al genitore. Senza però lasciare che sia il reato a definirlo. Dunque evitando che i/le figli/e assumano un’opinione pregiudicante di chi l’ha messi/e al mondo. È naturale che non si possa incanalare i casi in un’unica direzione. Ogni situazione è a sé. Quando vi è in ballo la violenza, soprattutto agita in ambito familiare, non è semplice creare luce nel buio. È però doveroso provarci.

Dignità familiare

Nell’immaginario comune, la famiglia è quel nucleo di membri legati da amore e cordialità. La televisione tende a dipingere la famiglia con volti sorridenti ed espressioni spensierate. Non sempre è così. Questa non è altro che un vetrina. La realtà è ben altro. In qualsiasi contesto familiare troviamo luci e ombre. E anche queste fanno parte di quell’equilibrio. È importante che vengano riconosciute e affrontate. Quando una persone si ritrova dietro alle sbarre, verosimilmente anche i suoi familiari si considerato reclusi. Se anche in libertà, quest’ultimi si ritrovano rilegati in una realtà dalla quale è difficile uscire. “La barchetta rossa e la zebra” non si propone di scovare una vita di fuga. Piuttosto, garantisce un modo di riorganizzare quello spazio tanto soffocante. Facendo così che quell’oppressione si traduca in una normalità accettabile e sopportabile. Dalla quale si può imparare una lezione di vita.

Dignità della persona detenuta

Se restituire una dignità alla famiglia e porre i/le figli/e al centro è uno degli intenti fondamentali del progetto, restare vicino ai/alle carcerati/e non è comunque di secondaria importanza. Dobbiamo riconoscere che una persona, per quanti e quali errori possa commettere, è comunque un essere vivente. E in quanto tale dispone di diritti e dignità. Questi fronti non devono mai essere negati. Non vi è alcuna utilità nella vendetta. Nell’utilizzare la violenza per punire una colpa o un ulteriore atto violento. È necessario riconoscere i/le detenuti/e come persone. Senza sminuire il reato da loro commesso. Cercando però di non far sì che sia esclusivamente quest’ultimo a definire chi lo ha commesso. Non nella sua interezza.

“La barchetta rossa e la zebra” permette la libera espressione

In quanto persone, anche i/le detenuti/e sentono la necessità d’esprimere l’inferno che stanno passando. Per questo sono state messe a punto alcuni mezzi per far sì che ciò accade. Un esempio è l’arteterapia a cui sono sottoposte le donne del carcere di Genova Pontedecimo. Attraverso disegni, colori, dipinti, le signori delle case circondariali esprimono il loro disagio interiore. La loro sofferenza. Le madri riescono a trasferire su un foglio bianco quel dolore dovuto al distaccamento dai/dalle loro bambini/e. La preoccupazione di non assistere alla crescita della prole. Di perdersi tutte quelle prime volte che non torneranno mai più. Questo strumento di riscatto permette alle signore di fare chiarezza tra sentimenti ed emozioni. Definendo quest’ultimi nel contesto in cui si trovano.

Cosa dice la legge?

In Italia gran parte dei/delle carcerati/e possiedono figli a carico. Il 96% dei genitori in carcere è di genere maschile. Tuttavia, sia per quanto riguarda i padri che le madri, non sempre la teoria si trasforma in pratica. La legge italiana garantisce la dignità dei/delle detenuti/e in quanto persone. Eppure, le violenze all’interno delle mura carcerarie sono all’ordine del giorno. È inoltre previsto che, almeno che non vi siano ragioni di sicurezza a impedirlo, i/le carcerati/e mantengano rapporti con i familiari. E che questi vengano incentivati. Peccato che il progetto “la barchetta rossa e la zebra” nasca proprio dalla mancanza di queste situazioni dignitose.

Perché il progetto “La barchetta rossa e la zebra” è così importante?

Probabilmente, se stessimo trattando di un disegno che non ha nulla a che fare con chi ha commesso un reato, sarebbe più facile smuovere gli animi delle persone. Ed è proprio questo il punto. Quando si parla di detenuti/e non si tengono in considerazione alcuni aspetti fondamentali. Tra questi vi è il fatto che stiamo mettendo in gioco la vita di persone. Individui in difficoltà che alle loro spalle possiedono altre persone che soffrono. Tra cui, in molti casi, i bambini. Nel contesto della genitorialità non mancano altresì giudizi affrettati. Diventare genitori è per molti soggetti un dono immenso. Si vede in quel cucciolo che mettiamo al mondo una speranza di vita. Nel momento in cui i nostri occhi distolgono lo sguardo da quell’essere minuscolo, un equilibrio si spezza.

Non è utile a nessuno penalizzare i genitori detenuti. Non lo è per quest’ultimi, né per i bambini. Anzi, sono proprio i/le piccoli/e a farne le spese in misura maggiore. Dovremmo tenere a mente che un/a bambino/a non è un eterno/a neonato/a. Si tratta di una persona che crescerà. La quale comincerà a pensare con la propria mente e verosimilmente commetterà degli errori. Come possiamo pretendere che gli adulti di domani siano migliori di noi, se i grandi di oggi insegnano che che puntare il dito e condannare sia una maniera sana di uscire dalla violenza? Cerchiamo piuttosto di metterci in ascolto. Di porgere la mano. Di comprendere. Ecco che a quel punto avremo accettato il buio. E lo avremo riorganizzato.


I detenuti in Corea del Nord sono sottoposti a torture e abusi


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