Italo Svevo: grande romanziere del primo Novecento
Italo Svevo oggi ci appare come il nostro più grande romanziere del primo Novecento e anche come un personaggio di spicco sia della cultura italiana che di quella mitteleuropea del XX secolo. Se invece fossimo stati nella stessa epoca di Ettore Schmitz, vero nome di Italo Svevo, non avremmo mai sentito parlare di Svevo come di un letterato importante e famoso. Se si escludono gli ultimissimi anni della vita del romanziere, le sue opere furono totalmente ignorate dal pubblico e dalla critica e la sua fortunata carriera professionale, di impiegato prima, di commerciante e industriale poi, fu del tutto estranea alla letteratura.
Italo Svevo nacque il 19 dicembre 1861 a Trieste da un’agiata famiglia ebrea di origine tedesca; dai dodici ai diciassette anni studiò in un collegio in Germania, dove si entusiasmò per i classici tedeschi e per Shakespeare. Svevo, tornato a Trieste, fu prima indirizzato dal padre agli studi commerciali e poi impiegato in banca. Il grigiore dell’ambiente di lavoro opprimeva il giovane Svevo che fuggiva dalla pesantezza della banca e si rifugiava nella scrittura; componeva novelle e testi teatrali, collaborava con un giornale locale e studiava in biblioteca per «conquistarsi un po’ di cultura italiana». Italo Svevo studiò Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio, De Sanctis e si appassionò ai romanzieri francesi del naturalismo come Flaubert e Zola; Svevo nel 1892 diede alle stampe, a sue spese e nella quasi totale indifferenza di critica e pubblico, il romanzo Una vita. «L’edizione di mille copie», scrisse lo stesso Svevo, «fu pian piano smaltita in doni che l’autore fece ad amici e conoscenti».

Italo Svevo nel 1896 sposò la figlia di un facoltoso industriale e dopo due anni pubblicò il secondo romanzo Senilità; il suo successo fu, secondo le parole dell’autore, «nullo del tutto». La bruciante delusione lo indusse ad accantonare le aspirazione letterarie e ad entrare come socio nella ditta del suocero. Una Vita e Senilità furono scritti secondo una passione letteraria del tutto solitaria; i romanzi vennero alla luce senza la mediazione dell’intellettualità del tempo. Non riscossero alcun successo e Italo Svevo, disilluso, abbandonò la penna e si dedicò al lavoro da industriale. In realtà la decisione di ripudiare la letteratura non fu ferrea come fece pensare la solennità dei suoi propositi. Nel 1902 scrisse alla moglie: «sono del tutto intento a divenire nel più breve tempo possibile un buon industriale […] ma deve esserci nel mio cervello qualche ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno vuole leggere». E nel 1903, quasi a voler giustificare la voglia di scrivere: «io voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti a non saper pensare che con la penna in mano mi obbliga a questo sacrificio […]. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione». Italo Svevo nel 1905 incontrò James Joyce, allora residente a Trieste; dall’incontro con l’intellettuale irlandese sorse in Svevo un’insperata fiducia nelle sue capacità letterarie. Joyce dunque stimolò Svevo a scrivere ma questi riprese la penna solo alla fine della Grande Guerra; nel 1923 il romanziere di Trieste pubblicò La coscienza di Zeno. Illustri critici francesi recensirono entusiasticamente l’opera facendone un caso letterario. Anche in Italia il nome di Svevo non fu più solo quello del facoltoso industriale ma anche quello di un romanziere all’avanguardia. Eugenio Montale spese bellissime parole per lo scrittore triestino, lo esaltò per la capacità di «riflettere come pochissimi altri gli impulsi e gli sbandamenti dell’anima contemporanea».
Italo Svevo: l’ironia della depressione
Italo Svevo: impulsi e sbandamenti dell’anima contemporanea
Italo Svevo rivolse la sua attenzione non a fattori esterni nè al documento storico nè a quello ambientale, nemmeno a quello sociale. Svevo fu curioso dei fatti interni dell’uomo, fu esploratore dei labirinti del subconscio umano e mise a nudo tutto quello che si celava o fermentava sotto la crosta delle apparenze esteriori e delle convenzioni sociali. La poetica di Svevo si compone di aspetti tra loro molto diversi: dalle radici ebraiche derivarono il senso di precarietà, l’inquietudine, l’ronia e l’autoironia. Al contempo l’ambiente triestino lo spinse a una ricerca di identità nutrita di suggestioni scientifiche, filosofiche e letterarie disparate. I romanzi di Italo Svevo riflettono le sensazioni, le emozioni e le impressioni della società mitteleuropea del primo Novecento ma Svevo andò sempre oltre e cercò di scandagliare i mondi più reconditi dell’uomo. Ne La coscienza di Zeno così come ne Una Vita e Senilità, i protagonisti sono degli “inetti” dai caratteri effimeri e inconsistenti. Gli uomini di Italo Svevo passano continuamente dai propositi più eroici alle disfatte più sorprendenti; sono l’opposto del superuomo dannunziano, incapaci, incerti e pieni di contraddizioni irrisolte. Nelle opere del romanziere triestino ha la meglio il discorso indiretto libero: questa scelta stilistica tende ad assorbire ogni elemento della vicenda nei contorti meandri dell’autocoscienza dei personaggi. Allo sguardo disincantato degli individui di Italo Svevo la vita non è bella nè brutta ma originale, imprevedibile e soprattutto impossibile da analizzare sulla base di concatenazioni lineari di causa-effetto. Svevo ha dissolto le realtà oggettive nella coscienza dei suoi personaggi e ha lasciato agli uomini la possibilità di toccare le cose del mondo con le mani dell’anima. A Italo Svevo il grande riconoscimento per aver spostato l’attenzione sul magma interiore dell’uomo, sulla sua complessità fatta di confusione, paure e malattie difficilmente diagnosticabili.