L’Italia è ferma, un vascello col timone rotto in mezzo al mare per il momento in calma piatta ma in attesa della tempesta. Il governo del cambiamento dichiara di voler andare contro tutto e tutti in Europa ma media con tutti in Europa e cerca sponda (e soldi) in USA con Conte ed in Cina con Di Maio perché, aldilà del sostegno di facciata di alcuni capi di governo (Orban) sedicenti alleati e tra l’altro “impegnati”a tutelare anch’essi prima i loro connazionali, questo governo non trova sponda in Europa. Appare anche difficile immaginare un’Europa unita con al governo tutti capi politici che antepongono gli interessi dei propri popoli a quello della comunità europea. Non c’è tempo per disegnare scenari eversivi dell’unita europea e non dovrebbe esserci interesse politico da parte del governo a preparare guerre economiche, bisogna rimettere in moto l’Italia e trovare il coraggio di cambiare lo stato di cose presenti, di farlo in fretta e nell’interesse collettivo, non per vincere un’effimera battaglia di parte!!
La dura realtà – come mostra l’analisi della Cgia di Mestre – con la quale questo governo e le parti sociali devono confrontarsi è che dal 2000 al 2017 la ricchezza nel Paese è cresciuta mediamente di appena lo 0,15% ogni anno: rispetto al 2007, anno pre-crisi, l’Italia deve ancora recuperare 5,4 punti percentuali di Pil. Nel terzo trimestre del 2018 previsioni ISTAT stimano che il Pil sia rimasto invariato rispetto al trimestre precedente, con un tasso tendenziale di crescita è pari allo 0,8%. Il terzo trimestre del 2018 ha avuto due giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero rispetto al terzo trimestre del 2017. Nel terzo trimestre del 2018 la dinamica dell’economia italiana è risultata stagnante, segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni. Questo risultato – a cui si è giunti dopo una fase di progressiva decelerazione della crescita – implica un abbassamento del tasso di crescita tendenziale del Pil, che passa al + 0,8%, dal + 1,2% registrato nel secondo trimestre. La variazione acquisita per il 2018 è pari al + 1%, stima preliminare della crescita che si otterrebbe in presenza di un’ulteriore variazione congiunturale nulla nell’ultimo trimestre dell’anno. E la risposta del governo a questa drammatica situazione sarebbe la riduzione della pressione fiscale (quindi meno entrate) per i soliti noti e il reddito di cittadinanza (quindi più uscite) per chi ancora non si sa!! E gli investimenti pubblici per trainare la ripresa, produrre reddito e rimettere in moto i consumi? E la lotta all’evasione ed all’elusione fiscale? E la tassazione proporzionale e progressiva delle rendite finanziarie e/o parassitarie? E il rilancio dell’occupazione degna, stabile e duratura? E come fermare la chiusura delle fabbriche che per un motivo o per un altro scappano dall’Italia? La (turca) Pernigotti in queste ore ha annunciato la chiusura del suo stabilimento di Novi Ligure. Chi può salvare e salverà i lavoratori di questa e di tutte le aziende che in Italia per diversi motivi sono in default o andranno in default o molto più semplicemente dichiareranno lo stato di crisi oppure chiuderanno oppure delocalizzeranno?
Bisogna agire con coraggio, intervenire strutturalmente e radicalmente sulle forze produttive e sui rapporti di produzione: ma questo governo non è in grado di farlo, esprime velleitarismo economico che aggiunto allo sciovinismo politico ci porta direttamente allo scontro con il mercato ma da posizioni di debolezza oltre che di isolamento.
Il “decreto dignità” è un progetto velleitario che acuisce le diffidenze del mondo imprenditoriale verso mal sopportati vincoli e normative del lavoro e continua a non tutelare i giovani dal ricatto loro imposto dagli imprenditori per restare ed essere confermati in azienda. Se si volesse davvero cambiare le cose bisognerebbe pur organizzare una prima, immediata e concreta benché minima, risposta alternativa con l’intervento diretto dello Stato finalizzato ad aiutare chi le crisi aziendali le subisce per davvero.
Una prima misura potrebbe essere quella dell’introduzione delle 35 ore lavorative a parità di salario ma senza l’obiettivo minimo o, se vogliamo, l’illusione massima di aver vinto la povertà – come dichiarato dal ministro Di Maio – oppure di poter riassorbire la disoccupazione in tempi brevi.
È sempre stato chiaro che l’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro significava essenzialmente riduzione della fatica psico-fisica del lavoro; nessuno si è mai illuso che essa potesse in qualche modo modificare il rapporto fra capitale e lavoro o intaccare in maniera significativa le leggi che reggono il modo di produzione capitalistico.
Una di queste leggi è per l’appunto che, nelle fasi di crisi, la disoccupazione aumenta necessariamente e questo avviene perché, di fronte all’acuirsi della competizione internazionale, il capitale è costretto a reagire introducendo innovazioni tecnologiche miranti a un’intensificazione della produttività espellendo, quindi, manodopera oppure rendendo sempre più elastici e precari i rapporti di lavoro.
Sostenere oggi che le 35 ore siano la strada per riassorbire una disoccupazione che dilaga ormai in tutto il mondo significa fare soltanto un discorso demagogico: significa diffondere tragiche illusioni ed esporsi al “ludibrio” politico.
Se anche un qualsiasi governo oggi decidesse, in Italia, di introdurle per legge, uniformandosi peraltro a normative già presenti in altri paesi europei soprattutto allo scopo di attenuare situazioni di malcontento e di possibili conflittualità sociali, si scatenerebbe la violenta reazione del padronato in termini di richiesta di aumento della produttività e quindi dello sfruttamento di chi già lavora, elevando all’inverosimile in maniera ricattatoria la precarizzazione del rapporto di lavoro, già finora consentito da leggi compiacenti emanate da governi compiacenti.
Se è giusto e necessario che il Sindacato e le forze politiche di sinistra facciano propria la battaglia per una riduzione dell’orario, lo si deve fare appunto nella prospettiva di alleviare la pena e la fatica del lavoro e non nell’illusione distruttiva di ottenere in tal modo un riassorbimento della disoccupazione cadendo, semmai, anche nella trappola del “reddito di cittadinanza” o del “salario minimo garantito” che sono solo misure pensate dal capitale per preservare il sistema disinnescando un potenziale di rivolta e per favorire la domanda interna, non certo per garantire il benessere dei cittadini.
Quella della riduzione di lavoro dovrebbe essere, soprattutto, una scelta di civiltà e come tale valutata e condivisa con altrettanta civiltà. Se si vogliono davvero portare a un miglioramento significativo le condizioni di vita e di lavoro – sebbene provvisorio, come tutte le conquiste che restano dentro il quadro dei rapporti di produzione capitalistici – misure come la riduzione dell’orario devono essere il risultato di un’ampia mobilitazione sindacale e della continua ricerca del dialogo costruttivo delle rappresentanze dei lavoratori con le imprese e con il governo. L’impegno è per tutti gravoso ma è, parimenti, necessario se si vuol dare un futuro alle prospettive dei giovani ed un presente allo sviluppo industriale del Paese. Unico dubbio: chi è disposto a rischiare?