Non è la DAD ad essere in crisi ma l’intero sistema scolastico. La didattica a distanza è solo lo strumento destreggiato (disastrosamente) da una scuola già in bilico.
La storia di DAD della studentessa veneta
“Una storia di DAD”, l’ha definita la rete degli studenti medi di Verona; “Un eccesso di zelo” è stata invece la definizione del Dirigente del Liceo Montanari di Verona. La notizia al centro di queste affermazioni è quella della studentessa veneta costretta a bendarsi nel corso di un’interrogazione a distanza per dimostrare alla professoressa che la sua preparazione non era dovuta a qualche appunto nascosto dietro lo schermo. Questa, però, non è una storia di DAD, né la storia di un eccesso di zelo: è la storia di una scuola in crisi. Se è vero che la pandemia ha ridotto la scuola a una zattera che imbarca acqua da tutti i lati con dispute furiose sulla DAD, è la storia di questa studentessa a definire i limiti di un sistema in crisi già da molto tempo. Perché, come ha detto “l’insegnate d’Italia”, Alessandro D’Avenia, “Dobbiamo smetterla di ridurre la scuola al medium che usiamo, la scuola è la relazione discepolo-maestro. Abbiamo bisogno di una scuola che torni a dare centralità alla relazione”.
Non è la DAD ad essere in crisi ma la scuola
Non vi sono dubbi che la scarsa digitalizzazione del nostro Paese abbia acuito le falle di un ingranaggio tutt’altro che oliato, evidenziando come la scuola italiana sia ben lontana dal comprendere culturalmente, oltre che strumentalmente, il profondo significato di una “rivoluzione digitale”. Tuttavia, ciò che la benda della studentessa veneta mostra è la cecità di un sistema che ha perso di vista i propri obiettivi: una scuola che non riesce a fidarsi dei suoi studenti è una scuola che non può in alcun modo educare le future generazioni. Il sistema scolastico dovrebbe essere capace di adattare metodi di insegnamento a processi e strumenti di apprendimento diversi. La DAD è il veicolo che la “scuola-Covid” sta usando: ad essere in crisi, quindi, non è lo strumento ma il sistema che lo usa.
Non andava tutto bene quando le scuole erano aperte
Da molto tempo le classi si sono trasformate in un “parcheggio” per ragazzi. La pandemia questo lo ha dimostrato chiaramente attraverso le lamentele dei genitori. Una scuola che si ostina a voler misurare gli apprendimenti dei suoi studenti e famiglie che chiedono la riapertura delle scuole solo per non essere ostacolati nel perseguire (giustamente) i propri obiettivi non è quello di cui hanno bisogno i ragazzi (né i loro insegnanti). Oggi, i ragazzi hanno perso prospettiva, motivazione, mettono in dubbio scelte già fatte, disperdono le loro energie, vanno in confusione. Vivono un’età di strutturazione identitaria in cui la socialità è centrale e per cui, oggi, sono presi da un senso di vuoto, solitudine, inconcludenza. Smettiamola, però, di dire che la colpa è esclusivamente della DAD e che quando la scuola era “aperta” i ragazzi e gli insegnati stavano bene e tutto funzionava correttamente. A dimostrazione c’è una percentuale di dispersione scolastica superiore al 13% precedente all’inizio della pandemia. La realtà, quindi, è che le scuole non sono aperte da molto prima che la crisi sanitaria scoppiasse.
Quale soluzione per una scuola in crisi?
La crisi sanitaria ha gettato un’ombra sulla scuola, tuttavia, è forse proprio grazie a questa che il sistema scolastico può rendersi conto di aver perso la sua luce da molto più tempo. La scuola ha bisogno di tornare ad essere aperta a prescindere dallo strumento che usa e, per farlo, c’è bisogno che torni ad essere centrale la relazione tra studente ed insegnante. Non vi sono dubbi che gli aiuti da parte del Governo siano scarsi e che sia scarsa la gestione di questo nei confronti di una delle più importanti sfere del Paese. Tuttavia, “Le soluzioni sono sempre e solo le persone in carne e ossa, che poi useranno degli strumenti migliori per gli scopi che si prefiggono. Abbiamo bisogno di una scuola che rimetta al centro la conoscenza come cura di noi stessi e del mondo. O ripartiamo dall’umano o continueremo a fare discorsi che non cambiano la sostanza, ma sono solo propaganda“, le parole di D’Avenia. I ragazzi non hanno bisogno di bende ma di una scuola che smetta di guardare con gli occhi e riapra il cuore.