Leggere il Diario di Anna Frank è un’esperienza fortemente toccante. L’empatia che, tra le righe, suscita nel lettore è sorprendente. Si tratta di una testimonianza tra le più preziose ed autentiche, che possediamo di quel periodo storico.
“Siamo stati costretti a ricordarci di essere ebrei incarcerati in casa, privi di diritti, con migliaia di doveri. Noi ebrei non possiamo far valere i nostri sentimenti, dobbiamo essere coraggiosi e forti, prenderci tutte le grane senza lamentarci, dobbiamo fare quello che possiamo e avere fiducia in Dio. Prima o poi questa terribile guerra finirà, e torneremo a essere uomini e non soltanto ebrei!” (Martedì, 11 aprile 1944).
Il Diario di Anna Frank
Dipinge una delle pagine più oscure della storia dell’umanità, il cui contenuto fa dubitare dell’esistenza stessa di questa umanità.
Sin dalla prima pagina rapisce, il Diario di Anna Frank. Forse perché, suscita sgomento pensare che la penna che ha messo nero su bianco certi racconti, atroci, fosse impugnata da una ragazzina, appena tredicenne.
13 anni, è l’età della spensieratezza, anzi, dovrebbe esserlo. L’età in cui l’unico problema è mettere un freno alla voglia di crescere troppo in fretta.
Questa è la storia della clandestinità di una piccola grande donna, a cui la vita non ha riservato il dono di diventare adulta. È il racconto delle sue paure, condivise con altre milioni di persone.

9 luglio 1942
È la data che dà inizio alla “nuova vita” della famiglia Frank che, esattamente 78 anni fa, insieme ad una coppia di amici ed il figlio, si trasferiscono nell’alloggio segreto. In tutto, sono 7. Più tardi, si aggiungerà anche un ottavo membro.
È un triste esodo il loro, reso con le parole di chi è costretto a crescere troppo in fretta ed a mettere da parte i propri sogni.
“Così ci incamminammo sotto il diluvio, papà, mamma e io, ognuno con la sua cartella o borsa della spesa piena degli oggetti più svariati. Gli operai che andavano a lavorare di mattina presto ci guardavano pieni di compassione; dalle facce si capiva che erano dispiaciuti di non poterci offrire nessun mezzo di trasporto. L’appariscente stella gialla parlava da sé“.
Fu il principio di un percorso lungo due anni. Due anni di paura, terrore di essere traditi, scoperti e uccisi. Un percorso che ebbe un triste epilogo nel 1945, anno in cui le sorelle Frank trovarono la morte nel campo di concentramento di Bergen Belsen.
L’alloggio segreto
Amsterdam, Prinsengracht 263. È una zona florida della città, in cui sono site numerose imprese e qui si trova anche il palazzo che ospitava la ditta di Otto Frank. Nessuno sapeva, ne doveva sapere, che all’ultimo piano dello stabile, fosse pronto un appartamento abbastanza spazioso da ospitare due famiglie. Pronto, per essere usato non appena se ne fosse presentata la necessità.
“Sulla destra dell’atrio c’è il retro-casa, l’Alloggio segreto. Nessuno sospetterebbe che dietro una semplice porta dipinta di grigio si nascondano tante stanze. Davanti alla porta c’è un gradino, poi si entra“. Successivamente, davanti alla porta d’ingresso, per precauzione, fu piazzata una libreria girevole.
Da mesi, in maniera discreta e silenziosa, la famiglia portava quanti più possibile beni di prima necessità nel rifugio, consci che prima o poi, non avrebbero più potuto uscirne. Almeno, non prima della fine della guerra. Chissà quando sarebbe giunto quel momento.
Una vita segregata
Ogni minimo rumore, anche il più banale poteva determinare la fine per tutti loro. Paradossalmente, per salvarsi la vita, avrebbero dovuto rinunciarvi per un po’. Un sacrificio sopportabile, di fronte alla prospettiva di salvezza.
I sensi si affinano, in certi casi anche il solo respiro, diveniva assordante. Quando al piano di sotto gli uffici si riempivano di lavoratori e clienti, al piano di sopra tutto si fermava, tutto taceva.
Era necessario diventare immobili, fermare anche il tempo, ogni piccolo movimento poteva essere causa di sospetto. Le finestre, oscurate. Il buio doveva essere totale, o quasi. L’attesa poteva durare ore ed era estenuante, colma di disagio e occhi pieni di terrore che si guardavano gli uni con gli altri.
Anna racconta che poteva rimanere seduta, senza muovere un dito, fino a perdere la cognizione del tempo. In queste condizioni, l’equilibrio della “comunità”, costretta a convivere stipata, letteralmente tra quattro mura di un nascondiglio, che assumeva sempre di più le sembianze di una prigione, era piuttosto precario.
La privacy, un ricordo lontano. La libertà, una speranza che si faceva sempre più evanescente. Il futuro, un’incognita angosciante.
“Non potere mai andare fuori mi opprime indicibilmente, e ho paura che ci scoprano e ci fucilino. Non è certo una prospettiva piacevole. Di giorno bisogna camminare piano piano e parlare a bassa voce, perché nel magazzino potrebbero udirci“.
Pensieri, frutto di una estenuante prigionia
Ogni pensiero viene annotato sulle pagine di questo Diario. È così che veniamo a conoscenza degli stati d’animo che giorno dopo giorno attanagliano Anna ed i suoi compagni di sventura.
Anna trova nel Diario, nella sua confidente immaginaria Kitty, a cui i pensieri sono indirizzati, il suo unico sollievo. È l’unico modo per affidare a qualcuno ciò che porta dentro.
Durante la clandestinità, ogni passo udito, fuori orario di lavoro, destava una paura incontrollabile. Poteva trattarsi solamente di ladri, o peggio, di poliziotti.
Le giornate erano scandite da un ritmo spaventosamente serrato. Il Diario custodisce una realtà costruita con fatica, da chi non ha scelta. Rivela come l’istinto di sopravvivenza, per chi ama la vita, si sviluppi naturalmente tenendo accesa una luce, seppur fioca, che solo il prevaricare del male assoluto può spegnere.
“Vedo noi otto nell’alloggio segreto come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro circondati da nubi nere di pioggia“.