giovedì, Aprile 25, 2024

I can’t breathe: le parole che sconvolsero l’America

I can’t breathe. Dopo questa famosa frase, pronunciata da George Floyd prima di morire soffocato da un agente di polizia, è iniziato un nuovo capitolo della storia americana. Forse, all’inizio, nessuno avrebbe mai pensato che la morte di Floyd avrebbe portato a tutte le proteste di massa e le richieste di riforma che si sono succedute in questi mesi. Ma la situazione è realmente risolta? Dai BLM a “Defund the police”, ecco cosa è stato raggiunto e cosa, invece, è ancora una strada in salita.  

I can’t breathe: come è andata veramente?

25 maggio 2020. L’afroamericano George Floyd acquista un pacchetto di sigarette a Cup Foods, un negozio all’incrocio fra la 38° strada e Chicago Avenue, a Minneapolis, Minnesota. L’impiegato del negozio crede che la banconota da 20 dollari con cui Floyd ha pagato sia falsa. L’impiegato, allora, esce dal negozio, e chiede all’uomo di restituirgli le sigarette. Ma Floyd sale in macchina e se ne va. L’impiegato decide quindi di chiamare il 911. Alle 20:08, due agenti di polizia si presentano nel negozio, e circa dieci minuti dopo si dirigono verso il suv di Floyd. I due lo intimano di scendere dalla macchina, puntandogli la pistola. Dopo una breve colluttazione, George Floyd scende dall’autovettura e i poliziotti lo ammanettano.

In seguito a una richiesta di assistenza da parte dei due agenti, giungono sul posto altre due volanti. Ed è qui che per la prima volta si vede Derek Chauvin. Secondo Chauvin, Floyd si rifiuta di salire in macchina, ed è quindi per questo che lui lo tiene fermo, a terra, mettendogli un ginocchio sul collo. Le ultime parole di George Floyd sono: “I can’t breathe” [in italiano: non riesco a respirare]. Dopo quei famosi otto minuti e quarantasei secondi, Floyd smette di muoversi. È morto. Quando le autopattuglie e Chauvin arrivarono sul posto, nessuno di sarebbe mai immaginato che sarebbe accaduto un qualcosa che avrebbe portato a proteste di massa in tutto il Paese, e non solo.

I Black Lives Matter: un primo cambiamento dopo “I can’t breathe”

Dopo la morte di George Floyd, i cittadini americani e di tutto il mondo hanno deciso di dire basta al razzismo. Questo momento di lutto e rabbia collettiva ha prodotto una riflessione nazionale su cosa significa essere afroamericano, un dibattito tuttora aperto. Prima sono arrivate le manifestazioni nelle città di tutti gli Stati Uniti, che hanno dato vita al più grande movimento di protesta di massa nella storia del Paese. Poi, nei mesi successivi, 170 simboli della confederazione sudista sono stati rinominati o rimossi dagli spazi pubblici. Lo slogan “Black Lives Matter”, le vite dei neri contano, è stato rivendicato da un intero popolo sconvolto dalla morte di Floyd. La morte di George Floyd ha scatenato una vera e propria rivolta. Statue e simboli storici sono stati abbattuti come nella rivoluzione; direttori di giornali e capi di aziende sono stati costretti alle dimissioni; icone pubblicitarie cancellate da un giorno all’altro.

George Floyd: un passo in avanti, ma non sotto tutti gli aspetti

L’omicidio di Floyd ha tuttavia portato anche a conseguenze che hanno impattato negativamente la ricerca dell’equità razziale. Alcune manifestazioni hanno infatti portato anche a violenze e saccheggi in molte città. Come in ogni situazione, i radicali hanno preso il sopravvento in certe occasioni, dando vita alla cosiddetta “Cancel culture”. Anche il motto “Defund the police” ha creato tensioni all’interno del movimento stesso. Molti sostenitori di questo credo vorrebbero spostare i finanziamenti dei diritti di polizia alle risorse della comunità, come gli esperti della salute mentale e assistenti sociali. Sono molti invece i simpatizzanti del movimento Black Lives Matter che credono che i dipartimenti di polizia vadano mantenuti, sebbene a condizione di una serie di riforme. Però, anche in questo caso, gli elementi più estremisti hanno usato questo motto per propagandare l’idea di eliminare la polizia e i servizi carcerari.  Questo ha indubbiamente portato a tensioni fra democratici e repubblicani.

Il verdetto di Derek Chauvin: un lieto fine o una strada in salita?

Il 20 aprile 2021, Derek Chauvin, l’agente di polizia bianco ritenuto responsabile per la morte di George Floyd, è stato condannato per l’omicidio. Il verdetto ha dato un po’ di conforto alla comunità afroamericana, anche se è ancora lontana da un cambiamento reale. Sono ancora molti, infatti, i cittadini afroamericani che vengono uccisi per mano di agenti di polizia in ogni parte degli USA. Dopo il processo Chauvin, repubblicani e democratici sono alle prese per decidere su che linea proseguire per definire le decisioni in merito all’equità razziale. Insomma, a quasi un anno dalla morte di George Floyd, il Congresso di trova ancora a un punto fermo nell’ambito delle riforme del dipartimento di polizia. A seguito del verdetto, i democratici stanno approfittando del momento per spingere per ottenere una riforma della polizia. Ma stanno subendo un contraccolpo a causa di “Defund the police”.

Anche i repubblicani stanno esaminando i criteri per una possibile riforma della polizia. Tuttavia, non sembrano intenzionati ad ascoltare le proposte avanzate dalla controparte democratica. Alcuni membri del GOP sostengono addirittura che le forze dell’ordine siano sotto assedio da parte dei movimenti per la giustizia sociale. Diversi conservatori sostengono invece che la Cancel culture, la cancellazione della cultura, così come la pressione sociale, abbiano influenzato il verdetto della giuria nel processo a Derek Chauvin, cosa che potrebbe ripetersi in futuro. La morte di George Floyd è riuscita ad aprire gli occhi all’America; tuttavia, gli americani si trovano nuovamente divisi. E nonostante il verdetto dii Chauvin segni senza dubbio un passo avanti, la strada da percorrere è ancora lunga.


Leggi anche: Processo Chauvin: ex agente dichiarato colpevole per omicidio Floyd

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