giovedì, Aprile 18, 2024

Hikikomori in crescita: disagi e silenzi degli adolescenti interconnessi

Per molti ragazzi sembra che stare in Internet sia una droga, una dipendenza a tutti gli effetti,  giovani autolesionisti, “ritirati sociali”, che soffrono della cosiddetta sindrome di Hikikomori: uno degli effetti della dipendenza da internet dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni. Un fenomeno che sta pericolosamente riguardando sempre di più anche l’Italia, dove 240mila ragazzini e adolescenti passano in media più di 3 ore al giorno davanti al pc.

Per molti giovani ormai il web viene prima di tutto, la vita comincia e finisce lì.

I social network  sostituiscono i rapporti veri con gli amici o con la famiglia e finiscono per raccogliere il disagio, anche quello più profondo. I primi casi italiani, sporadici e isolati, sono stati diagnosticati nel 2007, e da allora il fenomeno ha continuato a crescere e seppure con numeri diversi da quelli giapponesi, a diffondersi.

Ad oggi non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono “ritirati”, le stime parlano di 20/30 mila casi, ma il fenomeno potrebbe essere più ampio. In Francia se ne contano quasi 80 mila, mentre in Giappone, dove il fenomeno è quasi endemico, si parla di cifre che oscillano tra i 500 mila e il milione di casi.

Le scienze comportamentali spiegano a tal riguardo, la presenza di comportamenti ben precisi nel giovane Hikikomori: crisi di pianto, incapacità di relazione, continue lamentazioni su di sé e, nella sua sofferenza, c’è una forte componente di senso di colpa. Il sentimento prevalente è la vergogna. Si vive come un fallimento la distanza tra il mondo che si è immaginato e previsto per sé e quella che invece  è la realtà: tanto più grande è la distanza tra la realtà che si era idealizzata e quella vera, tanto più grande sarà la vergogna che si prova. La scelta di conseguenza cade sull’auto-reclusione in un universo minimo e virtuale, scegliendo cosi di giocare con identità multiple ,creandosi percorsi sociali all’interno dei social o dei videogiochi, annullandosi completamente come esseri umani e lasciandosi passivamente trascinare all’interno dello schermo. Gli Hikikomori hanno una forte avversione per tutti i tipi di attività sociali, dall’uscire con i coetanei alla pratica di sport di gruppo, e, soprattutto, un’accentuata fobia scolare, non necessariamente motivata da brutti voti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto e della competizione.

Questo disagio cosi forte ha portato molti ragazzi ha praticare quello che è stato definito “cutting”o autolesionismo, atto che consiste nel tagliarsi con oggetti appuntiti come coltelli, lamette, pezzi di vetro; un fenomeno chiaramente preoccupante, ma che va interpretato prima di tutto come “un grido di aiuto” da parte di molti adolescenti.

A saziare le esigenze di chi si taglia fuori dal mondo esterno, si è pensato, per molto tempo ,fosse la Rete, in quanto capace (apparentemente) di fornire risposte e aiutare a costruire legami senza troppi pericoli e senza mettere in gioco il corpo. E proprio Internet è al centro di un’ampia discussione nella quale ci si chiede se il rapporto parossistico tra Hikikomori e web sia la causa o l’effetto della malattia.

In merito prevalgono due teorie: secondo la prima gli Hikikomori nascono per colpa della rete, che con le sue mille attrattive ti tira dentro e ti allontana dal mondo. La seconda invece, antropologicamente più credibile, sostiene che i ragazzi stanno male comunque, perché non reggono il peso del confronto e della continua aspettativa che arriva dalla cultura contemporanea;  il concetto di Rete come ambiente curativo, bellissimo dove andare, potenzialmente infinito e pieno di stimoli, in cui crearsi una vita fuori dalla vita, escludendo cosi il concetto di “ambiente pubblico”, di privacy e relazione, convinti di entrare in una realtà parallela completamente slegata dal sociale, è un’idea chiaramente distorta e pericolosa.

Va tenuto presente infatti, che il cyberspace non ha niente a che vedere con lo spazio fisico, è uno “spazio non spazio”, che non può permettere una fuga o un cambiamento completo della nostra quotidianità. Lo schermo diventa a quel punto il centro operativo di tutto, quella barriera emotiva-relazionale che rende tutto più freddo, vuoto, illusorio, inesistente, in grado di svuotare lo stesso concetto, cosi profondo, di empatia.

La nostra percezione della realtà riguarda tutto il corpo e tutti i nostri sensi che si trasformano in “estensioni tecnologiche” legate non al mio punto di vista ma al mio “punto di stato”: il mio immaginario da soggettivo diventa oggettivo , parte quindi di una realtà nuova e pubblica , costituita da nuove e ricche identità interconnesse che gestiscono continui flussi comunicativi.

Combattere il disagio giovanile ed un uso del web irresponsabile ed improvvisato, significa prima di tutto far comprendere come la vita vada costruita, vissuta ed affrontata, no personalizzata e controllata, in quanto è una “strada” che merita di essere percorsa, ma la salita può diventare meno faticosa attraverso un maggiore coinvolgimento di educatori, genitori, professionisti del web, affinché diventino “artigiani dell’ascolto e della comunicazione”, come ha affermato la filosofa Corradi Fiumara.

Sono proprio questi , i due strumenti che secondo lo psicologo Goleman, “costituiranno la colonna, il trampolino per un’applicazione effettiva di un’educazione prima di tutto emotiva”, soprattutto per quei giovani che preferiscono autoescludersi dal mondo sociale, piano piano, senza farsi vedere, in silenzio.

Giacomo Buoncompagni
Giacomo Buoncompagni
Buoncompagni Giacomo. Aspirante giornalista scientifico. Laureato e specializzato in comunicazione pubblica e scienze sociali -criminologiche. Collaboratore di Cattedra presso l'Università di Macerata. Presidente provinciale Aiart Macerata. E' autore di "Comunicazione criminologica" e "Analisi comunicazionale forense" (2017)

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