venerdì, Ottobre 4, 2024

Giuseppe Gioachino Belli, poeta dialettale romano

Il 7 settembre 1791, a Roma, nacque Giuseppe Gioachino Belli, celebre poeta dialettale che scrisse i propri componimenti più rappresentativi nel periodo dell’Italia preunitaria. Insieme al milanese Carlo Porta, il quale descrisse coi propri versi la società meneghina a lui contemporanea, Belli è considerato tra gli autori maggiormente rappresentativi di questo particolare genere poetico, caratterizzato dall’attenzione a lingua, motivi, personaggi e situazioni attinti dal mondo popolano.

Belli e i “Sonetti romaneschi”

Avendo vissuto nella Roma papale precedente all’Unità, Belli seppe farvisi attento osservatore e interprete, così come Porta fece a sua volta con Milano. Attraverso più di duemila sonetti scritti in vernacolo romanesco, Belli offrì un affresco realistico e spontaneo della vita nella città di Roma.

La raccolta, intitolata Sonetti romaneschi, ebbe la sua prima edizione nel 1864-1865, pochi anni dopo la proclamazione nel 1861 del Regno d’Italia (al quale Roma sarà annessa solo nel 1870 in seguito alla breccia di Porta Pia). Constando di ben 2279 sonetti, la raccolta di Belli rappresenta la più ampia produzione di poesie durante tutto l’Ottocento.

Il popolo romano

Particolare attenzione è rivolta a chi anima e rende pulsante e brulicante di vita questa città, ossia il popolo romano. Protagonista indiscusso delle sue poesie, questo viene osservato e descritto nella sua umile e dimessa quotidianità, fatta di disinganno, tormenti, patimenti, sconfitte e delusioni.

Di questi attori sociali, Belli coglie, apprezza e riflette attraverso lo schermo della propria poesia anche tutta una vasta gamma di attributi positivi. Così, il poeta riferisce e fa trasparire come la plebe romana sappia anche essere furba, dotata di spirito salace, nonché dimostrare una mentalità pratica e concreta.

Emerge, in questo modo, una coralità contraddittoria del popolo romano, i cui personaggi, siano essi singoli individui o gruppi collettivi, vengono impiegati dal poeta come strumenti o bersagli di una satira sociale e politica che sfuma alle volte nella caustica e divertita ironia, mentre altre acquista una tonalità più drammatica.

Scrive Belli nell’Introduzione alla sua raccolta di sonetti: «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza».

La lingua

A una scelta di contenuto orientata in tal senso, fa pendant un uso linguistico e stilistico scritto volto a mimare con sapienza dissimulata la lingua dialettale, nella sua fibra più intima e viva. Ciò spesso si manifesta lessicalmente con l’impiego di espressioni tra le più vernacolari e caratteristiche dello specifico dialetto. Oltre che sul piano lessicale, un lavoro di imitazione linguistica di questo tipo non potrebbe non estendersi anche a livello fonologico, morfologico e sintattico.

Il risultato, dunque, è un insieme di componimenti dietro alla cui apparente semplicità linguistica ostentata, suggerita dalla lingua dialettale in cui sono composte le opere, si cela un lungo ed elaborato studio linguistico che permette di ottenere una rusticità espressiva lavorata ad arte. Proprio per questa ragione, le poesie dialettali di Belli, proprio come quelle di Porta, non hanno solo il pregio dell’opera artistica. Esse sono considerate anche documenti linguistici di inestimabile valore, letti e studiati da linguisti e storici della lingua italiana.

Li soprani der Monno vecchio di Belli

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
              
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
              
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».

Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».

(Sonetto datato 1832. Numero 362 dei Sonetti romaneschi)

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