Non finirò mai di dire che l’identità è il problema centrale di ogni società, in particolar modo in quelle occidentali, maggiormente resistenti ad egemonie religiose.
La comunicazione
Esistono ancora sensibili differenze dovute alla cultura nazionale che si è consolidata (o meno) a seguito del processo di unificazione, ma l’omologazione degli strumenti di comunicazione – e il nostro adeguamento ad essi – le sta velocemente attenuando.
Ed è un grosso problema perché l’identità è il collante di ogni organizzazione sociale. La storia ci ha mostrato che la creazione di una appartenenza (anche fittizia) è stata il motore per l’affermazione di ogni realtà nazionale, ma anche di regime.
Siamo ciò che “non” siamo
Non sapendo esattamente “chi” siamo non possiamo neppure riconoscerci nel patto sociale che ci tiene insieme; ma possiamo sempre provare a definirci per differenza individuando qualcuno di “diverso”.
La discriminazione è la chiave di lettura che restituisce identità sulla base di ciò che “non si è” (o non vuole essere).
Hitler inventa “la razza ariana” come caratteristica del popolo tedesco; Mussolini si rifà all’epica romana e organizza il fascismo attraverso un sistematico inquadramento paramilitare che inizia sin da bambini.
Assurdità prive di ogni fondamento storico, scientifico o etico; ma in cui milioni di persone hanno creduto. E credono ancora oggi in aberrazioni come quella che distingue l’essere umano in “razze” diverse.
Il centrosinistra contro Berlusconi
Il centrosinistra in Italia negli anni 90 nasce come fronte anti-berlusconiano. Non è un caso se, dopo essersi affermato alle elezioni, si sgretola sulla base delle divergenze interne, ma soprattutto proprio perché è andato al governo.
Perché il punto debole del riconoscersi solo in quanto antitesi ad un “nemico” è quello di seguirne inevitabilmente le sorti.
Paradossalmente, lo stesso discorso si può fare per la destra, che ha trovato convergenze elettorali, ma mai programmatiche.
Identità fluide
Identità fluide sono quelle che derivano dallo sport: lo abbiamo visto per l’ennesima volta con la vittoria della nazionale ai campionati europei di calcio.
Milioni di persone che si ritrovano nelle piazze nel nome di una appartenenza comune per poi tornare alle loro vite, estranee tra loro come lo erano in precedenza.
O proteste sporadiche basate non su una visione complessiva, ma su un singolo provvedimento.
Giudicare per appartenere
L’identità (e quindi l’appartenenza) si consolida attraverso lo schierarsi pro o contro, così da legittimarsi all’interno di un gruppo.
Per questo motivo la comunicazione, specie via social, si è connotata attraverso il giudizio: il giudizio definisce non solo chi ne è oggetto, ma soprattutto chi lo esprime.
Giudizio significa polarizzazione; significa non entrare nel merito delle questioni ma appiattirsi su chi ne rappresenta le posizioni estreme.
Da tempo non si discute, solo ci si schiera, rispondendo così ad un bisogno primario: non quello di capire (o fare la scelta migliore), ma identificarsi in uno schieramento. Assumere una identità: definirsi.
Niente sfugge al giudizio perché a poco a poco si è perso qualunque interesse per l’informazione in sé; anche perché è più semplice aderire ad una spiegazione piuttosto che farsi una idea.
Il problema è che limitandoci a giudicare non si va oltre l’oggetto stesso del giudizio: se votare per l’uno o per l’altro, se accettare o meno un determinato provvedimento…
Il nostro modo di rielaborare l’informazione è divenuto strumentale al posizionamento rispetto ad opzioni rigide e sempre meno rappresentative, sia della complessità che dei reali interessi della cittadinanza.
La censura delle voci fuori dal coro
Qualunque voce diversa tra quelle proposte diviene oggetto di attacchi da entrambe le parti, ed il suo autore viene tacciato di essere “contro il sistema”, perché si pone su posizioni che negano la sua appartenenza.
Così coloro che protestavano al G8 di Genova del 2001 divengono “Black Block” (i processi stanno faticosamente facendo chiarezza su quanto è realmente successo, a cominciare dagli abusi della polizia alla caserma Diaz); gli abitanti della Val di Susa devastate dai lavori della TAV: “antagonisti”.
Chi pone questioni sui criteri di vaccinazione di massa (tra cui migliaia di medici) è bollato come “no vax” o “untore” (anche contro l’evidenza dei fatti: chi si è vaccinato può ammalarsi ma anche diffondere il virus).
L’informazione stessa è responsabile della riduzione di spazi di confronto che aiuterebbero le persone ad orientarsi e ridimensionare il crescente scetticismo che deriva da una comunicazione contraddittoria e unidirezionale
Una limitazione della libertà
Ma tutto questo non è altro che un sintomo. Il risultato di anni nei quali sistematicamente non si è investito nella scuola e nella cultura, e la politica si è appiattita nella ricerca di consenso e non nella promozione di valori.
I mezzi di comunicazione hanno fatto il resto, omologando verso il basso non solo la programmazione e l’informazione, ma la stessa capacità critica del suo pubblico.
L’utilizzo della rete e dei social si è semplicemente conformato alle esigenze di chi ne fruisce. La tecnologia in sé non è né buona né cattiva (eccetto le armi), ma può esserlo l’uso che se ne fa.
Abbiamo abdicato, pigramente, alla nostra capacità di interagire in modo propositivo con il mondo che ci circonda, accontentandoci, come consumatori dentro un supermercato, di scegliere tra ciò che ci viene proposto, senza chiederci se possa esistere anche altro in grado di soddisfare realmente i nostri bisogni.
Magari persino credendoci davvero informati, ma in realtà presi dalla rete di algoritmi che selezionano per noi contenuti adatti
Una libertà che si limita alla scelta tra le opzioni possibili, e non ad una possibile autodeterminazione, non può dirsi tale.