Giovanni Leone: travolto da accuse infondate, il 15 giugno 1978 si dimette il 6° Presidente della Repubblica

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Giovanni Leone si dimette il 15 giugno 1978.

Il 15 giugno 1978, alle ore 20:10, Giovanni Leone, 6° Presidente della Repubblica italiana, annunciò in televisione di essersi dimesso dall’incarico. Fu l’epilogo di un mandato a dir poco travagliato per il giurista napoletano che non solo dovette far fronte ad una serie di tragici eventi quali la strage di Brescia e quella del treno Italicus, ma dovette gestire anche la drammatica vicenda legata al rapimento di Aldo Moro, culminata con l’assassinio dello statista pugliese ad opera delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978.

In realtà Leone aveva manifestato la sua disponibilità a concedere la grazia alla brigatista Paola Besuschio per evitare che Moro potesse pagarne le conseguenze e, nonostante dure critiche e obiezioni da parte della maggioranza di governo, sarebbe stato pronto ad intervenire ma non fece in tempo. Negli anni, l’ormai ex Presidente della Repubblica affermò che, in seguito al delitto del segretario della DC, si convinse che: «I brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero affrettato quella mattina l’assassinio».

Giovanni Leone, sesto Presidente della Repubblica.

Quelle dell’esponente della Democrazia Cristiana sono passate alla storia come le prime dimissioni volontarie di un Capo dello Stato in Italia per ragioni politico-finanziarie. In realtà, già negli anni ’60 c’era stata una rinuncia dell’incarico da parte di un Presidente della Repubblica, ma per ragioni completamente diverse da quelle di Giovanni Leone. Infatti Antonio Segni, eletto nel 1962, due anni dopo venne colpito da una grave trombosi cerebrale che costrinse i Presidenti di Camera e Senato e il Capo del Governo a sottoscrivere un atto di «impedimento temporaneo». Dunque, in mancanza di una dichiarazione di «impedimento permanente», non fu possibile procedere subito con le votazioni per un nuovo capo del Quirinale. Segni però, dopo aver avuto l’ictus, il 6 dicembre 1964 decise di dimettersi volontariamente. Andando avanti nel tempo, anche nel 1985 e nel 1991 arrivarono le dimissioni rispettivamente di Sandro Pertini e Francesco Cossiga a poche settimane dalla conclusione dei loro mandati.

Tornando a Giovanni Leone, bisogna sottolineare che fin da subito la sua ascesa al Colle generò qualche malumore anche all’interno della Democrazia Cristiana, perché ottenuta con una maggioranza centrista appoggiata dall’esterno da una parte della destra, circostanza poco gradita agli ambienti della politica negli anni ’70. Inevitabile, dunque, l’ostilità e le critiche da gran parte del mondo della sinistra, che trovò terreno fertile anche a fronte di una scarsa operazione di difesa da parte dei democristiani verso l’operato del Capo dello Stato.

La tormentata elezione di Giovanni Leone

La procedura che portò all’elezione di Giovanni Leone quale 6° Presidente della Repubblica italiana ancora oggi viene considerata come la più lunga e complicata di sempre, poiché durò ben 23 scrutini e 15 giorni. Le votazioni partirono ufficialmente il 9 dicembre 1971, quando la Democrazia Cristiana si mostrò piuttosto compatta nel presentare come suo candidato Amintore Fanfani. Questi, in realtà, non godeva del sostegno unanime del suo partito, e così in 6 occasioni i franchi tiratori ne impedirono l’approdo al Quirinale. Addirittura, mentre svolgeva le operazioni di controllo delle schede in qualità di Presidente del Senato, pare che lo stesso politico toscano ne avesse trovata una recante la scritta: «Nano maledetto, non sarai mai eletto».

E così, preso atto che Fanfani non era riuscito ad ottenere la maggioranza necessaria per essere nominato ufficialmente Presidente della Repubblica, la Democrazia Cristiana si ritrovò senza un suo candidato. Immediatamente partirono i colloqui e i confronti all’interno del partito, e alla fine si decise di proporre proprio Giovanni Leone, una figura terza che non si era mai trovata impelagata in beghe interne alla DC e, dunque, pienamente al di sopra delle parti. Anche in questo caso, però, l’elezione fu tutt’altro che agevole e, dopo due scrutini andati a vuoto, la maggioranza venne raggiunta con il sostegno esterno del Movimento Sociale Italiano che, all’epoca, si dichiarava apertamente «fascista». E proprio questa circostanza non avrebbe giovato al mandato di Leone.

La complessa elezione di Giovanni Leone.

Infatti, fin da subito la sua figura fu considerata come eccessivamente conservatrice, anche perché, dopo aver scalzato Fanfani, il giurista napoletano era stato preferito anche ad Aldo Moro, considerato ben più vicino agli ambienti della sinistra. Leone cercò di portare avanti il suo incarico scevro da qualsiasi tipo di legame con il suo partito, e questa strategia finì con il procurargli l’ostilità dei democristiani che, col tempo, l’avrebbero poi abbandonato al suo destino. Allo stesso tempo, le tensioni con la sinistra si accentuarono quando il 14 ottobre 1975 inviò un messaggio alle Camere per chiedere una riforma costituzionale, giacché a suo parere la Legge Fondamentale non era più in grado di sancire la libertà e la giustizia sociale, auspicando anche un’attuazione delle norme che richiedevano di garantire con delle leggi specifiche il diritto allo sciopero e le associazioni sindacali.

Le prime critiche al 6° Capo dello Stato

Gran parte della sinistra (avallata dalla Democrazia Cristiana) cominciò a diffondere l’immagine di un Giovanni Leone come presidente troppo vicino alla destra. E così, a partire dal 1975, su di lui cominciarono a piovere numerose e aspre critiche anche da una parte della stampa e persino dal mondo del cinema, come avvenne ad esempio nel film «Signore e signori, buonanotte». Inoltre, approfittando del fatto che l’avvocato partenopeo era notoriamente un uomo al di fuori degli schemi e delle etichette, fu attaccato per una serie di gaffe che, in realtà, non avevano alcun secondo fine.

Giulio Andreotti rivelò che quando si recò ad una commemorazione in onore di Mazzini insieme al Presidente della Repubblica, prima di fare il suo ingresso in sala, alla presenza di alte personalità e giornalisti, lo prese per un braccio e gli disse: «Ho sentito dire che Mazzini porta jella. Tié!», accompagnando quest’esclamazione con il gesto scaramantico delle corna. Questo venne ripetuto anche in un’altra occasione, in risposta ad un contestatore che gli urlò contro: «Leone a morte!».

La situazione si fece ancor più pesante quando nel mirino degli oppositori del Capo dello Stato finì la moglie Vittoria Leone che, oltre ad essere di circa vent’anni più giovane di lui, spesso si lasciava immortalare su riviste di alta moda femminile. Gli attacchi portati avanti soprattutto dal Partito Radicale di Marco Pannella e dal settimanale L’Espresso vennero raccolti in un libro e pubblicati dalla giornalista Camilla Cederna con il titolo «Giovanni Leone: la carriera di un Presidente». Edito da Feltrinelli, a partire dai primi mesi del 1978 il volume ottenne un notevole successo, arrivando a vendere fino a 700mila copie in poco tempo.

Camilla Cederna, autrice del libro su Leone.

Nel frattempo proseguirono gli affondi de L’Espresso e altri giornali che pubblicarono anche vignette dissacranti e a tratti offensive contro l’inquilino del Quirinale e la sua famiglia, accusandolo di essere un presidente della destra e di avere amicizie e frequentazioni losche e poco raccomandabili. Non gli fu mai perdonata, infatti, l’elezione grazie anche ai voti di MSI e quella richiesta di riforma costituzionale che fu interpretata come la volontà di rivedere la Costituzione in senso maggiormente autoritario e anti-democratico

Il caso Lockheed: Leone nell’occhio del ciclone

Il momento più difficile e tormentato del suo mandato come 6° Presidente della Repubblica, Giovanni Leone dovette affrontarlo quando scoppiò lo scandalo Lockheed. Si trattava di un’importante azienda produttrice di aerei che nel 1976, dinanzi alla commissione del Senato statunitense, rivelò che aveva corrotto numerosi politici e funzionari di diversi Paesi per garantirsi delle commissioni. Tra gli Stati chiamati in causa ci fu anche l’Italia che aveva acquisito dei velivoli da trasporto C-130. Dalle indagini portate avanti dal Senato americano emerse che le presunte losche trattative con il governo italiano erano avvenute nel 1968. Nella mediazione erano rientrati soprattutto i fratelli Lefebvre, storici amici di Leone, ma anche vari esponenti dell’esercito, del Ministero della Difesa e persino il Presidente del Consiglio.

Lo scandalo Lockheed.

La Lockheed consegnò anche un cifrario contenente dei messaggi in codice utilizzati per comunicare in piena sicurezza con le istituzioni dei Paesi coinvolti. In merito all’Italia, si scoprì che erano state versate delle tangenti ad un certo «Antelope Cobbler» (antilope ciabattina), termine che indicava proprio la nostra Repubblica e soprattutto il Primo Ministro. Nel 1968 si erano avvicendati due Capi del Governo, Mariano Rumor e Giovanni Leone. In un battibaleno tutti i sospetti e le accuse ricaddero sul secondo, che si ritrovò nell’occhio del ciclone soprattutto perché all’opera di mediazione avevano preso parte i suoi amici Lefebvre, e anche perché sul nome in codice vennero fatte delle speculazioni volte esclusivamente a mettere in cattiva luce il Presidente della Repubblica.

Innanzitutto, si sospettò che «Cobbler» potesse essere la trascrizione errata di «Gobbler», dunque «antilope ciabattina» divenne «mangiatore di antilopi», identificabile con il leone, il cognome del responsabile del Quirinale in quegli anni. Una seconda accusa tirò fuori una visita del giurista napoletano negli Stati Uniti, quando si fermò dinanzi ad un negozio perché attratto da un paio di scarpe di antilope. In realtà emerse che queste erano tutte accuse infondate, giacché la Corte Costituzionale constatò che il misterioso «Antelope Cobbler» era Mariano Rumor, il quale però non venne mai messo ufficialmente sotto accusa, mentre Giovanni Leone fu dichiarato completamente estraneo alla vicenda. Ma ormai era troppo tardi: infatti soltanto nel 1998 arrivarono le scuse del Partito Radicale all’ormai ex Capo dello Stato, mentre quando ormai aveva 93 anni gli fu riconosciuto il titolo di Presidente Emerito della Repubblica.

Le inevitabili dimissioni di Giovanni Leone

Le sentenza sul caso Lockheed e i giudizi di diffamazione nei confronti de L’Espresso e della giornalista Cederna arrivarono troppo tardi, quando ormai l’immagine pubblica e politica di Giovanni Leone era stata macchiata da attacchi e critiche del tutto privi di attendibilità. Nel mese di giugno del 1978 mancavano appena 6 mesi alla fine del mandato del titolare del Colle che, nel frattempo, era stato completamente isolato dalla Democrazia Cristiana, e così il PCI ebbe gioco facile, il 14 giugno, nel chiedere formalmente per la prima volta nella storia le dimissioni del Capo dello Stato.

15 giugno 1978: Giovanni Leone si dimette.

Quanto accadde dopo è in parte ancora avvolto nel mistero. Giulio Andreotti, infatti, in diverse interviste successive ha rivelato che se in quella circostanza Leone avesse chiesto ufficialmente l’appoggio della DC l’avrebbe ottenuto senza alcun problema, ma in realtà pare che l’avvocato partenopeo avesse ormai deciso di abbandonare l’incarico perché ormai stanco e provato dalle eccessive pressioni che convergevano si di lui. Altri importanti esponenti politici, invece, hanno dichiarato che i democristiani di fatto approvarono l’intervento del PCI, invitando anche loro il Presidente della Repubblica a fare un passo indietro. E così, dopo aver registrato l’annuncio televisivo agli italiani, accompagnato solo dalla moglie e in piena solitudine, Giovanni Leone diede il suo addio al Colle.

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