Era il primo dopoguerra quando Adriano Olivetti introduceva nel dibattito pubblico e politico il concetto di “responsabilità sociale di impresa”. La fabbrica, diceva, deve svilupparsi assieme alla comunità che la ospita, e restituire al territorio il valore aggiunto della sua presenza. Ma lo sviluppo vertiginoso che aveva trasformato la piccola azienda di famiglia in una multinazionale all’avanguardia, aumentando i profitti ma anche le tutele dei lavoratori e il benessere di Ivrea, non fu di esempio alla nuova classe di industriali, che, dopo la sua improvvisa morte, si affrettarono a distruggere in fretta ciò che aveva creato. Nella storia della politica industriale italiana, Olivetti è una splendida eccezione che non è riuscita a fare scuola. Quella che conferma la regola: e la regola è l’acciaieria, ex ILVA, di Taranto.
L’obiettivo dei governi è trovare qualcuno in grado di accollarsi sia i lavoratori che i costi di bonifica dell’ambiente
Nata nel 1960 come Italsider a gestione pubblica, entra in crisi e viene privatizzata a furor di popolo, quindi nel 1995 acquisita dalla famiglia Riva che la ribattezza “Ilva”. Da lì a pochi anni drammatici i dati epidemiologici legati all’inquinamento portano al sequestro degli impianti e alla messa in stato d’accusa dei proprietari. Inizia la serie di commissariamenti, quindi la vendita al colosso Arcelor-Mittal (inizialmente in partnership con gruppi industriali italiani che poi si defilano). L’obiettivo dei governi è trovare qualcuno in grado di accollarsi sia i lavoratori che i costi di bonifica dell’ambiente; anche inventandosi una sorta di “scudo penale” permettendogli nel frattempo do continuare a produrre inquinando. E pazienza per i cittadini che hanno continuato ad ammalarsi.
L’acciaieria uccide chi ci lavora dentro e chi ci vive vicino: 208 operai sono morti al suo interno tra il 1961 e il 2019; tra loro l’incidenza del cancro rispetto al resto della popolazione di +500%. È vero che il “rischio zero” non esiste in nessun lavoro, e che viceversa esiste un nesso inversamente proporzionale tra i lavori più pericolosi e la classe sociale di chi li svolge. Ma questi numeri ci dicono che in Italia, nel 2019 il modo in cui si rischia di morire è legato alla variabile della classe sociale a cui si appartiene, come nell’800, né più né meno.
Vivere lì è come essere in guerra – morire è parte integrante dell’orizzonte quotidiano, anche per i più piccoli
Fuori, l’eccesso di mortalità entro il primo anno di vita è superiore del 20% rispetto alla media regionale, l’incidenza tumorale nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni è +54%. Sono dati, confermati e certificati dal Ministero della salute. Difendere i posti di lavoro non può prescindere dalla tutela della salute. Oggi, chi vive nel quartiere Tamburi – dove sorge la fabbrica – sa che ammalarsi è solo questione di tempo. Vivere lì è come essere in guerra – morire è parte integrante dell’orizzonte quotidiano, anche per i più piccoli.
Eppure politici di schieramenti apparentemente opposti parlano della necessità di salvaguardare una “eccellenza italiana” nella produzione di acciaio, di Prodotto Interno Lordo, di capitali attirati da investitori stranieri. Rinnovano l’opportunità di prolungare lo “scudo penale”, di permettere tutto a chi – questa è l’unica verità – risolve loro il problema che più gli fa paura: la disoccupazione, perché i morti non votano, ma quelli che hanno perso il lavoro, è possibile che lo facciano contro.
L’acciaieria è un’opera sbagliata sin dalle origini, che non poteva che produrre questo sfacelo. L’unica strada è ricondurla nelle mani dello Stato e riconvertirla – e solo allora, se sarà il caso, rimetterla sul mercato. Nessun privato si assumerebbe l’onere di farsene carico a queste condizioni, se non con un doppio fine. Il voltafaccia di Arcelor-Mittal è un serio indizio del fatto che (come qualcuno aveva evidenziato dall’inizio) il suo obiettivo fosse solo quello di distruggere la fabbrica ed eliminare un pericoloso concorrente sul mercato. Chi gli ha affidato le sorti della salute dei cittadini e del lavoro dei dipendenti, o l’ha fatto per incompetenza, o in cattiva fede. Ad ogni modo, di una cosa possiamo essere certi: non vive nel quartiere Tamburi.
La verità è che alle urne, i morti pesano meno dei disoccupati
La verità è che alle urne, i morti pesano meno dei disoccupati; e che per qualcuno, produrre inquinando, continua ad essere un buon affare. Povero è un Paese in cui il diritto a lavorare deve essere barattato con la vita.