giovedì, Marzo 28, 2024

Boris Yeltsin, l’uomo dei carri armati che accompagnò l’URSS alla porta

La caduta del muro di Berlino. Il golpe contro Gorbaciov. La crisi economica e la Perestrojka. La fine del Partito comunista. Il crollo dell’URSS. La nascita della nuova Russia. Questi eventi che hanno segnato la fine del secolo scorso in Russia, trovano nella figura di Boris Yeltsin un denominatore comune di un processo storico per niente scontato, ad oggi forse, dimenticato e tralasciato.

È il 1991. Il momento storico è cruciale. Si sentono, ancora rimbombanti nell’aria, i tonfi provocati dai cocci del muro di Berlino, abbattuto solo due anni prima. Nei programmi di risanamento economico, politico e sociale dell’Unione Sovietica, la Perestrojka è la strada da seguire.

Ma la manovra voluta da Michail Gorbaciov, segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e Presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), non porta risultati: è troppo lenta. La popolazione è stremata dalla crisi economica dovuta all’arretratezza del paese. La gente è in strada, chiede l’elemosina.

Sul fronte “estero”, dopo la proclamazione di indipendenza da parte delle repubbliche baltiche insieme a Georgia e Armenia, anche altri Stati spingono in direzione dell’autonomia. Su quello ideologico, aperture esplicite si sono registrate già dal dicembre ‘89 verso il capitalismo persino nella seconda sessione del Congresso dei deputati del popolo.

All’interno dell’URSS, nuove forze di respiro democratico, che non si riconoscono più negli ideali del comunismo, delineano il loro progetto di una nuova Unione Sovietica in forma di una confederazione di repubbliche indipendenti e dotate di autogoverno totalmente decentralizzato. Il loro capo è Boris Yeltsin, classe 1931, neoeletto Presidente della Repubblica Russa e nemico politico di Gorbaciov e del PCUS, dal quale è fuoriuscito appena un anno prima.

L’unico punto di intesa tra i due rivali politici sembra però essere la firma di un patto, fissata per il 20 agosto 1991, volto a sancire l’indipendenza dei singoli stati che formano l’URSS. Con la firma del patto, quest’ultima, sarebbe stata trasformata in un’“Unione delle Repubbliche Sovietiche Sovrane”.

Alcuni vertici del Partico comunista, tra cui il capo del KGB Vladimir Krjuckov, insieme al primo ministro Valentin Pavlov e al ministro degli Interni Boris Pugo, non sono d’accordo e non intendono assecondare Gorbaciov. Tentano un colpo di stato per salvare il potere del PCUS e per preservare la vita dell’URSS. Quello che i golpisti non sanno, è che l’unico risultato sarà proprio l’accelerazione della sua caduta. È il 19 agosto 1991.

I carri armati dell’esercito, sotto la guida dei golpisti, marciano per le strade della capitale dove circondano il Cremlino. Di Gorbaciov non si hanno notizie e nel trambusto generale, alcune voci – poi confermate – lo vogliono prigioniero in una dacia in Crimea, insieme ai suoi più stretti collaboratori e sostenitori.

È in questa situazione di crisi che si erge la figura del Presidente Yeltsin destinata ad imprimersi nella storia e nella memoria di quei giorni che diedero il via al disfacimento progressivo dell’Unione Sovietica.

Le radio non trasmettono più notizie, solo musica classica. Nel Paese regna il caos e le informazioni rimbalzano confuse.

Il presidente russo Boris Yeltsin, mostrato in foto del 19 agosto 1991 a Mosca, si trova in cima a un veicolo blindato parcheggiato di fronte all’edificio della Federazione Russa (Diritti sulla foto DIANE-LU HOVASSE/AFP/Getty Images)

Mentre i primi manifestanti, cittadini russi, cominciano a formare delle catene umane per impedire il movimento dei mezzi corazzati dell’esercito, Yeltsin si fa avanti tra la gente tenendo salda in mano la dichiarazione di condanna per l’atto di forza perpetrato dai golpisti. Sale su un carro armato nella piazza della Casa Bianca, la sede del governo e del parlamento russo.

Dapprima è il silenzio, poi viene giù uno scroscio di applausi. In piazza ci sono quasi trentamila persone. Yeltsin legge la dichiarazione.

La musica si ferma. Il nastro si riavvolge.

I soldati, ad uno ad uno, passano dalla parte della resistenza democratica. Nelle ore successive i carri armati cominceranno a lasciare la capitale. Il colpo di stato è fallito.

Qualche giorno dopo, in una seduta del Congresso, Yeltsin, vincitore assoluto della crisi di stato, accusa pubblicamente Gorbaciov. Il Partico Comunista viene bandito e i suoi beni sequestrati. Michail Gorbaciov rassegna le dimissioni da segretario del PCUS il 25 dicembre dello stesso anno, il giorno di Natale. Il giorno successivo l’URSS cessa formalmente di esistere.

C’è poi, un altro momento della vita di Boris Yeltsin, solo due anni più tardi, che lo riavvicinerà a quei carri armati che gli avevano portato nelle mani le redini della nuova Russia.

Come è facilmente intuibile, i periodi di transizione politica sono i più cruciali e difficili da gestire. Così è stato per il primo Presidente della Russia che ha dovuto assumere la guida di un paese arretrato, nell’era post-Sovietica, per condurlo verso orizzonti antitetici al suo recente passato.

Seguendo nuovi programmi volti ad un sostanziale passaggio da un’economia comunista ad un’economia di libero mercato, Yeltsin si attira presto i sospetti e le critiche di molti parlamentari. La natura delle riforme economiche legate alle proposte di massicce privatizzazioni gli attira contro numerosi oppositori politici.

Cannoni dei mezzi corazzati dell’esercito spiegati contro la Casa Bianca

Dopo il rifiuto del Parlamento di concedergli maggiori poteri presidenziali previsti dal Decreto delle riforme, nell’autunno del ’93 Yeltsin scioglie quest’ultimo e indice nuove elezioni. Il 22 settembre, contro la volontà del Presidente ma in conformità alla Costituzione, il parlamento sostituisce Yeltsin.

All’“insubordinazione” legittima del Parlamento, Yeltsin risponde comandando all’esercito di assediarne la sede – la Casa Bianca – proprio con gli stessi carri armati che due anni prima era sceso in piazza per fermare, e ordina di fare fuoco. Muoiono 187 persone e vengono contati 437 feriti. I superstiti vengono fatti arrestare e imprigionati.

Yeltsin non verrà mai processato per questi fatti. L’anno dopo i “ribelli” vengono scarcerati senza processo, scomparendo però dalla scena politica del Paese.

Il risultato di questa crisi fu l’approvazione di una nuova Costituzione, il proseguimento delle privatizzazioni, un accresciuto potere nelle mani del Presidente e la relativa e proporzionale mitigazione dei poteri del Parlamento.

Boris Yeltsin insieme a Vladimir Putin

Colui che dai carri armati sovietici aveva tratto la Russia, con i carri armati decise di guidarla nel nuovo secolo passando da quelle che, ai suoi occhi, dovevano sembrare le tappe necessarie e forzate del presidenzialismo e dall’accentramento del potere nelle mani di uno solo.

Il periodo di transizione dall’era sovietica alla formazione della odierna Russia si può dire così concluso.

Rieletto come presidente di uno stato che nel 1996 versa ancora in condizioni di piena crisi e dove la corruzione continua a crescere e insinuarsi in ogni ambito della vita civile e sociale, Boris Yeltsin, ormai provato da problemi di salute accentuati dall’abuso di fumo e alcool, il 31 dicembre 1999 rassegna le dimissioni, indicando Vladimir Putin come suo successore.

Morirà il 23 aprile del 2007 a seguito di un infarto.

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