Tutte le volte che qualche nostro connazionale – giornalista, cooperante o altro – viene rapito da una delle migliaia di bande che infestano l’Africa o qualche altro Paese in via di sviluppo, la reazione dell’opinione pubblica è sempre la stessa. Ed è sempre la stessa (nelle storie che finiscono bene, che non sono tutte) quando viene rilasciato, spesso dopo una lunghissima prigionia.
È già successo, e si ripropone oggi con Silvia Romano, la cui liberazione ha innescato una serie di polemiche che, per quanto fatue ed amplificate dai social, esprimono un livore ed una bassezza morale assolutamente inaccettabile, aggravata da venature discriminatorie e allusioni sessuali esplicite.
Tanti contro Silvia
Qualcuno che trova scandaloso che il nostro Paese debba accollarsi la spesa di un riscatto; altri mettono in relazione l’ipotetica somma versata ai rapitori – sempre ci sia stata – con i bisogni della società del momento (ieri i “terremotati”, oggi le persone che hanno perso il lavoro a causa dell’emergenza coronavirus) suggerendo una riflessione sulle priorità.
E naturalmente le accuse di “essersela cercata”, di avere il torto supremo di non essere rimasta a casa al sicuro, di aver scelto un destino personale e professionale diverso da quello di coloro che si permettono di giudicare.
Giudicare le sue dichiarazioni dopo oltre un anno e mezzo di prigionia, i suoi abiti, la sua conversione all’Islam; accusandola di avere offeso la religione cristiana che li rappresenta agli occhi del mondo, il Paese che ha pagato per la sua imprudenza, gli italiani tutti perché i soldi sono loro (almeno dei pochi che pagano le tasse). Chiamando in causa la Sindrome di Stoccolma, Patty Hearst, dicendosi sicuri che la tunica che indossa serve a nascondere una gravidanza…
Un quotidiano nazionale titola “Islamica e felice. Silvia l’ingrata” ricordandole che, in contrapposizione al suo impegno in Africa, “l’Italia è piena di gente bisognosa di soccorso”. Un altro, sempre in prima pagina, scrive: “Abbiamo liberato una islamica”, azzardando una metafora agghiacciante quanto fuori luogo: “ È come se un internato in un campo di concentramento tedesco fosse tornato a casa, ricevuto con tutti gli onori dal suo presidente del Consiglio, indossando orgogliosamente la divisa dell’esercito nazista”
La responsabilità dello Stato
In realtà, l’unica domanda lecita che possiamo porci su questa vicenda (e altre simili) è solo retorica e contiene in sé la risposta: è giusto per lo Stato italiano farsi carico del rischio di chi opera in contesti a rischio?
Assolutamente sì: è quello che fa, né più né meno, finanziando il welfare a protezione delle categorie sociali più deboli, ma anche della salute pubblica, quella che in questi mesi sta marcando la differenza tra noi e gli Stati Uniti d’America, ad esempio.
Per di più, c’è una differenza fondamentale, se proprio vogliamo dirla tutta, tra chi, spinto da uno slancio ideale, si dedica ad attività umanitarie nei riguardi di popolazioni meno fortunate che vivono in condizioni disagiate e chi mette a repentaglio la propria vita adottando uno stile di vita poco salutare (che inevitabilmente finisce col gravare sul bilancio della Sanità).
E, se proprio volessimo identificare delle priorità – cosa che non facciamo, perché il presupposto del welfare è il bisogno della persona, non il suo merito – forse una circostanza come quella di Silvia Romano merita maggiore considerazione di quella un qualunque tabagista o forte bevitore che, con uno sforzo relativo, potrebbe ridurre l’impatto del suo vizio sulla sua salute (e su quella della collettività).
A proposito di soldi spesi male
Per gli amanti dei calcoli, ricordo che ogni anno spendiamo circa 6,5 miliardi di euro per curare le malattie che derivano dal consumo di tabacco, senza considerare i disagi sociali e familiari che ne derivano; per non parlare delle complicanze collegate al consumo di alcool (al netto delle correlate problematiche legate alla criminalità e all’ordine pubblico), che da sole assorbono circa il 10% della spesa sanitaria nazionale totale.
Ma i soldi spesi male, sull’onda emotiva dell’opinione pubblica, sembrano essere solo quelli per favorire la liberazione di una persona che ha provato a far coincidere la sua vita con i suoi ideali, impegnandosi in una attività umanitaria.
Quegli ideali che i più, sprofondati nella noia e nella frustrazione della propria vita, non riescono altro che a giudicare e condannare, forse solo perché gli paventano la distanza che esiste tra ciò che sono e quello che sarebbero potuti essere.
Perché il punto non è che una persona come Silvia Romano debba essere necessariamente considerata migliore di altre sul piano etico civile o morale, ma neppure peggiore. E che la sua drammatica storia susciti non giudizi pregiudiziali, ma compassione e umanità.
Bentornata, Silvia.