Anna Maria Funari: in uscita un nuovo libro

Anna Maria Funari, scrittrice di origini marchigiane, romana di adozione, si dedica da anni alla cultura ed è stata la promotrice dell’iniziativa “Nuovi Autori nel Cuore di Roma“, una rassegna dedicata esclusivamente agli autori emergenti del panorama letterario italiano. In questi giorni sta presentando il suo nuovo libro Rodolfo Graziani – Il Soldato e l’Uomo, scritto con Gianfranco Santoro

Quali libri ha pubblicato Anna Maria Funari?

Nel 2010 Anna Maria Funari pubblica “L’isola dei graziati” Linee Infinite Edizioni, dopo aver ottenuto nel 2003 una segnalazione di merito al concorso “Jacques Prevert”, mentre nel 2012 dà alle stampe “Fuoco Che Danza – Pi’ta Naku Owaci”, edito dalla Società Editrice MonteCovello; è il primo libro di una trilogia dedicata ai Nativi d’America, doveroso e sentito omaggio ad un Popolo il cui fascino non è assolutamente in declino. In questo giorni in cui Anna Maria Funari sta presentando al pubblico il suo nuovo libro Rodolfo Graziani – Il Soldato e l’Uomo, scritto con Gianfranco Santoro. Ripubblichiamo un’intervista realizzata nel 2012.

Ci puoi confidare che cosa rappresenta per te la scrittura? Quando hai iniziato a scrivere?

Scrivere per me rappresenta molte cose in realtà. Senz’altro è una valvola di sfogo in momenti di particolare tensione, ma anche e soprattutto un modo per fissare emozioni, sensazioni o semplicemente pensieri legati ad un attimo particolare della mia vita o ad un’esperienza forte, come appunto è accaduto per “Fuoco Che Danza”. Fin dai tempi della scuola ho sempre avuto una facilità estrema con i temi, ma è stato intorno ai vent’ anni che ho iniziato, così per gioco, a scrivere brevi racconti; poi ho provato a partecipare a qualche concorso, tanto per mettermi alla prova, per vedere fino a che punto quel che scrivevo poteva piacere e i risultati direi che sono stati assolutamente buoni. Ciò che non avrei mai immaginato era di poter pubblicare, a distanza di anni, quel che nasceva dalla mia fantasia.

Hai pubblicato “Fuoco Che Danza – Pi’ta Naku Owaci”, il primo volume di una trilogia dedicata ai Nativi D’America. Come nasce l’interesse per questo popolo?


Il Popolo degli Uomini, come vengono definiti i Nativi d’America, ha sempre esercitato un enorme fascino su di me. La domanda che mi facevo sempre, quando vedevo i film western (il primo in assoluto fu “Ombre Rosse”), era “Perché gli indiani sono sempre cattivi?”.
La filmografia, almeno fino ad un certo punto, non ha certo contribuito a dare di loro un’immagine positiva; si è dovuto aspettare film “di rottura” come “Soldato blu” o “Piccolo Grande Uomo”, per arrivare poi a “Balla coi lupi”, affinché l’opinione pubblica cominciasse gradualmente a guardare tutto da un’ottica diversa. Anche la bibliografia non è stata meno impietosa. Ci sono due libri che considero come la Bibbia e il Vangelo per chi vuole conoscere, pur se in minima parte, la storia dei Nativi: “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” e “Alce Nero parla”.
Sono stati testi che mi hanno definitivamente aperto gli occhi, insieme alle biografie dei grandi capi e ad altri puramente storici ed etnografici; il tutto è stato poi completato, nel 1996, da un viaggio negli USA durante il quale ho avuto modo di “toccare con mano” la loro realtà, di ascoltare le loro storie, di conoscere meglio la loro cultura. E da questo, poi, è nato “Fuoco Che Danza”. All’inizio doveva essere una specie di “diario di viaggio”, trasposto su un personaggio, a cui poter attingere secondo la necessità del momento o semplicemente quando avevo desiderio di rivivere quegli stati d’animo molto particolari. Poi è maturata l’idea di una trilogia, perché la loro cultura è talmente ampia e profonda che mi è piaciuta l’idea di farla conoscere guardandola da più angolazioni, in più sfaccettature. Non vuole essere certo un trattato sugli usi e costumi dei Nativi d’America, non ne sarei capace e non ho titolo per farlo, ma la trilogia intende semplicemente far entrare in contatto il lettore con un mondo in cui hanno ancora oggi un’importanza rilevante valori fondamentali come la conoscenza di sé, l’equilibrio con la Natura, il valore della famiglia e tante cose ancora.

Un proverbio dei Nativi D’America dice: “Il corpo muore. Il corpo è semplicemente ciò che l’anima materialmente possiede. È il suo involucro. L’anima prosegue la sua vita.” Una tua riflessione.


I Nativi hanno un concetto di morte molto diverso dal nostro. Per quanto noi ci professiamo credenti, il momento della morte ci spaventa perché a mio parere facciamo molta confusione tra i due concetti di vita terrena e vita eterna, interpretando molto male un altro proverbio “Agisci come se dovessi morire oggi, pensa come se non dovessi morire mai”. Siamo molto legati al culto del corpo, dell’effimero, dell’apparenza, crediamo che il nostro involucro sia la sola cosa capace di dare un’immagine positiva di noi, mentre invece, come affermano loro, è semplicemente un contenitore di cui l’anima si serve per attendere il momento del passaggio; inutile, quindi, al fine della conoscenza profonda delle persone se non è accompagnato da una mente e da un cuore predisposti agli altri.

Che rapporto hai con la fede?


Domanda non semplice. Direi che ho un concetto molto confuso della fede e un rapporto altrettanto conflittuale con quanto dettato dalla fede stessa. Sono convinta che tutto quel che ci circonda non possa essere frutto solo ed esclusivamente di una evoluzione biochimica del pianeta e delle cellule; per contro, contesto vivamente le favolette con cui veniamo indottrinati, soprattutto dopo aver ascoltato dai Nativi le storie della creazione che ricordano molto da vicino quella di Adamo ed Eva.
L’unico particolare dissonante è che le loro storie venivano tramandate già migliaia di anni prima che qualcuno decidesse di scrivere la Genesi.
So che rasento l’eresia e che se fossimo nel periodo dell’Inquisizione sarei già su un rogo, ma la cosa che mi ha sempre lasciata perplessa è proprio il fatto che noi chiamiamo Dio colui che per altri ha un nome preciso. Che sia Allah, Jahvé o Wakan Tanka non ha importanza, ma ha un nome. E’ come se noi chiamassimo “Coso” una persona, un amico. Non so se riesco a spiegarmi…
Quindi ecco che ci sono domande a cui nessuno ha mai dato risposte, domande a cui la risposta l’ho trovata da sola, ritagliando di conseguenza il mio personale mondo di fede.
Riconosco il carisma di alcune grandi figure salite agli onori degli altari, ne disconosco con forza e decisione altre perché credo che perfino Wakan Tanka non sia contento di come alcuni uomini agiscono cercando di sottometterne altri usando come arma la paura e, in tempi ormai molto lontani, la totale ignoranza della realtà.

Cosa pensi del mondo dell’editoria? Hai avuto difficoltà nel trovare un editore per le tue pubblicazioni?


Parafrasando una frase che in genere si usa per i motocisti (“Motociclisti, strana gente”), direi che si potrebbe dire “editori, strana gente”. Onestamente penso che pochi siano quelli che realmente si mettono in gioco, scommettendo davvero su autori anche esordienti, mentre molti, anzi troppi, funzionano semplicemente da stamperia, chiedendo contributi sotto varie forme, e una volta che si sono assicurati il rientro delle spese, passami il termine, se ne fregano di sostenere l’autore per tutto quello che è il seguito: promozione, presentazioni, pubblicità, recensioni e chi più ne ha più ne metta. Personalmente, ho pubblicato nel 2010 “L’isola dei graziati” con Linee Infinite e nel 2012 “Fuoco Che Danza” con MonteCovello… non è stato difficile trovare chi pubblicasse, ma di strada da fare ce n’è ancora molta… davvero molta.

Sowmya Sofia Riccaboni
Sowmya Sofia Riccaboni
Blogger, giornalista scalza (senza tesserino), mamma di 3 figli. Guarda il mondo con i cinque sensi, trascura spesso la forma per dare sensazioni di realtà e di poter toccare le parole. Direttrice Editoriale dal 2009. Laureata in Scienze della Formazione.

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