Prendete la vostra vita – famiglia, affetti, lavoro, la casa che vi siete comprati (spesso con l’aiuto dei genitori), l’auto, la moto, le vacanze, l’abbonamento in palestra, le piccole sicurezze quotidiane; e un giorno arriva qualcuno o qualcosa che spazza via tutto. Ritrovatevi a piangere i vostri cari, a passare le notti al freddo e i giorni in fila ad una mensa per riuscire a mangiare qualcosa.
Poi provate a sentirvi come assediati; mentre qualcosa di cui sino a quel momento avete soltanto sentito parlare irrompe nelle vostre vite scalzando qualunque priorità: la fame, il disagio di non potervi lavare, temere per la propria vita. Immaginate solo le torture che altre migliaia di persone hanno subito, le violenze, i soprusi. L’incertezza non del domani, ma dell’oggi. Abituatevi all’idea di uscire di casa al mattino e non sapere se vi potrete fare ritorno.
Sentitevi così disperati da spendere tutti i soldi che avete per pagare un criminale in grado di assicurarvi il posto numero cinquecento su un barcone fatiscente che può portare al massimo un terzo di quelle persone. Immaginatevi il vostro pensiero mentre affrontate, di notte, l’oscurità del mare – statistiche alla mano con il 30% di possibilità di non affogare durante la traversata. Non è il coraggio che vi spinge, ma il fatto che non avete più niente da perdere.
Pensatevi al largo, dopo giorni di mare mosso – voi che un tempo soffrivate il mal di macchina sedendovi sul sedile posteriore – il caldo, la mancanza di spazio, le condizioni igieniche precarie; mentre chiedete notizie a chi vi ha raccolto e sentite rispondere che no, non potete sbarcare perché il governo vi considera come dei criminali da tenere lontani per motivi di sicurezza.
Poi finalmente a terra, dopo giorni lenti come è lento il tempo della sofferenza – e tutto quello che possedete sono la fame e gli stracci che indossate. Sentite l’umiliazione e la paura mentre venite identificato e condotto in quelle galere a cielo aperto che sono i centri di accoglienza, nell’incertezza di una risposta alla vostra domanda d’asilo.
Vi sfugge la distinzione operata dalla autorità tra chi scappa da una guerra certificata, e chi dalla fame; ma sembrano essere molto importanti per chi ha il potere di rimandarvi da dove venite, anche se per voi è la fine. Percepite l’ostilità della gente; e anche quanto poco avete da perdere perché avete già perso tutto, ed è difficile aver voglia di integrarsi in una società che si mostra ostile.
Il disagio è terreno fertile per la criminalità: ma nel condannare non dimentichiamo mai che il giudizio è spesso figlio delle opportunità che ognuno di noi ha avuto; che si può difendere qualcosa (anche la libertà o la sicurezza) solo perchè la si possiede – e non è così per tutti. Non dimentichiamolo mai.
Dopo di che, comprendere non significa escludere le responsabilità per i gesti compiuti. Ma l’unica strategia possibile al problema della sicurezza non è quella di reprimere o respingere coloro che stanno peggio di noi, ma offrire loro una opportunità: solo dal momento in cui alle persone si concedono dei diritti si realizzano le condizioni per le quali è lecito esigere da loro dei doveri.
Si discute sul tema dell’immigrazione come entomologi che osservano insetti infilati su uno spillone, lontanissimi dal ricordare – tra le ragioni del consenso, dell’economia, una buona dose di ignoranza, di disinteresse e di caldo – che stiamo parlando di vite umane che solo le circostanze hanno reso più fragili delle nostre. Provate a chiedervi cosa fareste, al posto loro, e solo dopo provate a dire cosa dovremmo fare noi.