Roma. 23 Marzo 1944. Al ministero delle corporazioni, le autorità fasciste celebrano il 25° anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento. Nelle stesse ore alcuni nuclei di pochi uomini armati dei Gruppi di Azione Patriottica hanno preparato le armi. Si ritrovano in piazza Santi Apostoli prima di dare inizio all’attacco contro gli occupanti tedeschi.
Rosario Bentivegna, giovane studente universitario di Medicina ed a cui è affidato il compito di portare in posizione il carretto con l’esplosivo, arriva al numero 20 di via Rasella, predispone la miccia e aspetta l’arrivo dei tedeschi. Gli altri membri del GAP si preparano. Con quasi un’ora e mezza di ritardo, i partigiani sentono i passi di marcia cadenzati del reggimento Bozen avvicinarsi da via del Tritone. Ancora pochi minuti e l’operazione sarebbe stata annullata.
Il giovane partigiano accende la miccia e si allontana. La bomba esplode a metà della colonna tedesca. 26 soldati tedeschi del Polizeiregiment Bozenmuoiono all’istante nell’esplosione. Contemporaneamente, altri 3 partigiani attaccano il fondo della colonna lanciando bombe a mano e fuggono. Nell’azione rimangono uccisi anche 6 civili, 4 uccisi dai soldati tedeschi e 2 probabilmente uccisi dall’esplosione della bomba.
I soldati tedeschi in preda al panico pensano di essere stati attaccati dall’alto e aprono il fuoco contro le finestre in via Rasella. Nel frattempo, i partigiani si sono allontanati sfuggendo ai controlli.
Non appena la notizia dell’esplosione si diffonde arrivano sul posto, in rapida successione, il questore di Roma Pietro Caruso, il generale a capo dei tedeschi a Roma Kurt Maelzer , il diplomatico e colonnello delle SS Eugen Dollmann; e, poco dopo, il console Eitel Friedrich Moellhausen accompagnato dal ministro dell’interno Guido Buffarini Guidi. La prima reazione dei tedeschi è di mettere a ferro e fuoco l’intero quartiere.
Herbert Kappler ha il il compito di indagare sull’esplosione. In breve tempo, la notizia dell’attacco in via Rasella arriva all’Oberkommando der Wehrmacht, quartier generale del Reich, e Adolf Hitler viene informato. La sua prima reazione è quella di ordinare una rappresaglia “che facesse tremare il mondo” per punire la popolazione di Roma: per ogni SS uccisa devono essere fucilati tra 30 e 50 italiani. Sul Lago di Garda invece, a Gargnano, Benito Mussolini viene informato con un telegramma su quanto è accaduto a Roma in via Rasella.
In via Rasella continuano perquisizioni e sparatorie. Le persone rastrellate vengono portate nelle vicine carceri del Viminale. Il comando tedesco fissa la proporzione di 10 a 1 per la rappresaglia; si decide di fucilare i condannati a morte già in carcere. Kappler viene incaricato della redazione della lista degli italiani da fucilare. L’ordine deve essere eseguito in 24 ore.
Al quartier generale tedesco, il generale Maelzer, Kappler e Hans Dobek, il maggiore del 3° reggimento Bozenpolizei, concludono i preparativi della strage. Al momento di decidere chi deve eseguire l’ordine Dobek rifiuta. Viene contattato il colonnello delle SS Wolfgang Hauser che rifiuta un coinvolgimento diretto delle SS e indica la Gestapo come esecutore. Così l’ordine viene dato proprio a Herbert Kappler, che non trova ragioni per rifiutarsi di obbedire.
Kappler torna in via Tasso e con i suoi uomini organizza la macchina della morte: 74 membri della Gestapo dovranno uccidere i prigionieri italiani selezionati e inseriti nella lista. Vengono definiti i gruppi di fuoco, date istruzioni sull’angolo di tiro e sulla posizione in cui dovranno essere messi i condannati per massimizzare l’effetto e risparmiare munizioni e tempi.
Resta da definire il luogo in cui compiere l’operazione: serve una “ampia camera della morte naturale”. Il capitano Erich Kohler propone di utilizzare delle cave abbandonate poco fuori Roma, sulla via Ardeatina, nei pressi delle catacombe di San Callisto. Kappler e i genieri dell’esercito tedesco ispezionano le cave. Il luogo dell’esecuzione è stato trovato.
I primi prigionieri arrivano nel piazzale delle cave. Mentre vengono radunati, Don Pietro Pappagallo, sacerdote arrestato per la sua attività antifascista, benedice gli altri prigionieri. Nel frattempo, Joseph Reider, un soldato austriaco disertore, viene riconosciuto mentre tenta di fuggire e riportato in via Tasso. Sarà l’unico superstite della strage.
Il primo gruppo di prigionieri viene fatto entrare nelle gallerie delle Cave Ardeatine alla luce delle torce. Il capitano Erich Priebke, cui è affidato il controllo della lista, spunta i primi 5 nomi. Giunti al fondo del cunicolo i 5 uomini vengono fatti inginocchiare.
Alle 15.30 di venerdì 24 marzo 1944, l’eccidio ha inizio. Vengono uccisi i primi 5 uomini. Poco dopo entra il secondo gruppo di 5 e, a seguire altri 5 e poi altri 5…
Kappler e Priebke si accorgono che sono stati portati alle cave 5 prigionieri in più dei 330 previsti dalla rappresaglia. Kappler decide di ucciderli, anche se “era un errore, ma poiché ormai erano lì…”. Alle 20 finiscono gli spari. I corpi di 335 uomini assassinati sono raccolti in due mucchi al fondo delle gallerie. Prima di abbandonare le cave i genieri tedeschi minano gli ingressi e li fanno esplodere per sigillare ogni entrata.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine resta il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.