Quel giorno alle 16.30 avevo appena finito di spezzare un contratto […] mi appoggiai con le spalle al vetro. Ho sentito un gran botto, un boato tremendo e poi la sensazione del buio. Il contraccolpo mi ha fatto finire lungo disteso dalla parte opposta della saletta, mi sono rialzato e come un automa mi sono diretto verso il salone. Vidi una cosa tremenda: c’erano pezzi di corpi martoriati, tanti feriti e ancora delle fiammelle di fuoco […] c’erano cambiali, soldi, pezzi di suppellettili […]. Ho visto un cliente che conoscevo che mi si è attaccato ai pantaloni in un lago di sangue: aveva una gamba spezzata. Mi sono messo a piangere, volevo andare via ma questo mi ha detto “no, rimani qui, aiutami!”
Sono queste le parole di Fortunato Zinni, sopravvissuto alla Strage di Piazza Fontana, considerata la madre delle stragi del dopoguerra.
È il 12 dicembre 1969. In Piazza Fontana, a Milano, scoppia una bomba nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Le vittime ammontano a 17 morti e 88 feriti. Il giorno stesso, ci sono altri tre attentati a Roma e viene trovato un ordigno inesploso in Piazza della Scala a Milano. La città è sgomenta e paralizzata.
Piazza Fontana: gli speciali in TV
È l’inizio di un mistero durato quasi mezzo secolo: un’inchiesta senza fine e senza colpevoli, in quanto tutti gli indiziati vengono assolti.
Inizialmente, i principali sospettati provengono da gruppi anarchici di sinistra: il 15 dicembre dello stesso anno vengono interrogati gli anarchici Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Il procuratore sostiene che durante l’interrogatorio Pinelli si sia suicidato gettandosi dalla finestra dell’ufficio in cui trovava. Ci vorranno sei anni per smentire ufficialmente quest’ipotesi.
Il principale sospetto diventa Pietro Valpreda, membro del gruppo anarchico romano “22 marzo”: i giornali e la televisione lo dipingono come “il mostro” e affronta un processo dal quale uscirà assolto per insufficienza di prove.
L’inchiesta subisce una svolta con la deposizione di un insegnante di Treviso, Guido Lorenzon, che dichiara alla procura di aver ricevuto una confidenza da parte di un amico, Franco Freda: lui e Giovanni Ventura, entrambi esponenti del gruppo di estrema destra “Ordine Nuovo”, sarebbero i responsabili della strage.
Dalle indagini iniziano ad emergere numerosi riscontri alle accuse di Lorenzon. Vengono trovate armi ed esplosivo all’interno delle abitazioni dei sospettati e alcuni negozianti cominciano a confessare di aver venduto a Freda e Ventura valigette uguali a quelle utilizzate dai terroristi. Entrambi diventano i principali sospettati negando, tuttavia, di aver preso parte all’attentato.
Nel 1977 si apre a Catanzaro il processo per la Strage di Piazza Fontana: sarà un processo unico nella storia della Repubblica Italiana. Per la prima volta in aula sfilano politici e ministri. Il coinvolgimento dello Stato Italiano in questo processo nasce dal sospetto dei magistrati che all’interno dei gruppi anarchici di sinistra vi siano infiltrati dei servizi segreti. Per questo motivo, varie figure politiche, tra le quali anche il ministro Andreotti, vengono chiamate a testimoniare.
Il processo termina nel 1987 con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Tutt’oggi la vicenda è controversa e soggetta a varie interpretazioni: alcuni sostengono che le stragi fossero utilizzate a favore della “strategia della tensione” (ovvero un disegno dell’estrema destra per terrorizzare i cittadini scatenando panico e instabilità); altri sostengono la teoria della “strage di Stato”, secondo cui gli attentati fossero una giustificazione per attuare misure di emergenza più reazionarie.
Nel 2005 la Cassazione condanna il collettivo Ordine Nuovo come responsabile della strage. Tuttavia, i capi del movimento Freda e Ventura non sono più processabili in quanto assolti definitivamente nel 1987.